sabato 1 ottobre 2022
Tra non credenti e credenti di diverse religioni nelle aule c’è un dialogo che spesso passa sotto silenzio. Una tendenza che è difficile da capire senza un approccio di sana laicità
L’università e il confronto sulla fede

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Dio non va più all’università, titolava il supplemento del “Corriere della Sera” “La Lettura” di domenica scorsa. Con competenza e il solito garbo, Marco Ventura rifletteva sul ruolo delle istituzioni educative religiosamente connotate, prendendo le mosse dalla rimozione dell’aggettivo "cattolica" all’università San Radbodo di Nimega nei Paesi Bassi. Il nome del vescovo medievale di Utrecht cui è dedicata resterà, ma soltanto quello. L’Olanda, e non per la prima volta, si distingue come altri Paesi del nord Europa, coi suoi cattolici favorevoli a passi in avanti che qualcuno a Roma potrebbe considerare salti nel buio. Che ciò dipenda dalla sua storia e dalle sue condizioni socio-culturali è evidente, anche se l’interrogativo su quanto sia utile seguire determinate tendenze secolarizzanti o valga la pena di contrastarle, almeno tramite una resistenza passiva, resta. A dire il vero, a detta degli intervistati, questa mossa potrebbe favorire una presa di coscienza e una consapevolezza maggiori, senza cullarsi mantenendo denominazioni obsolete. In Europa meridionale il problema dell’etichettatura di istituzioni simili non si pone ancora, ma una riflessione in proposito può comunque servire. Non è un caso se, ad esempio, l’ultimo Dipartimento di Scienze Religiose sopravvissuto negli atenei pubblici italiani sia quello della Cattolica di Milano, come se le problematiche quotidiane di società ormai multiculturali e multireligiose di cui tanto si polemizza sui media e tra forze politiche di opposta tendenza potessero essere affrontate in assenza di studi seri e approfonditi sul "fenomeno religioso" che caratterizza da sempre la storia umana e ha avuto un inatteso revival negli ultimi decenni. Lasciare che a occuparsene restino unicamente gli istituti confessionali frequentati prevalentemente da religiose e religiosi piuttosto che attraverso un approccio di sana laicità par rivelare una discutibile dicotomia e conferma la marginalizzazione della fede nell’ambito del privato o al massimo del gruppo di riferimento. Se è vero, come affermava il cardinal Martini, che in ciascuno di noi convivono un credente e un non credente, che le due categorie sia individualmente che collettivamente abbiano occasione di confrontarsi su solide basi di conoscenza critica non si vede perché ciò debba avvenire fuori dalla aule universitarie.

Paradossalmente, anzi, è proprio lì che già si stanno producendo fenomeni inattesi che passano purtroppo sotto silenzio: una delle mie studentesse - marocchina, musulmana di nascita ma divenuta agnostica durante l’adolescenza - anni fa si era iscritta ai corsi serali della facoltà di Economia della Cattolica (di giorno lavorava per aiutare il padre sarto, la mamma casalinga e due fratellini a cui ha fatto da madre supplente) grazie ai nostri corsi di teologia ha avuto occasione di tornare a riflettere e ha ritrovato la sua fede originaria. Non è velata, ha sposato un italiano senza chiedergli una formale conversione all’islam che nel suo paese sarebbe stata indispensabile, ma prega e digiuna nel mese di ramadan, il che non mi par poco. A casa sua fanno bella mostra di sé quadri in cui sono trascritti, in bella calligrafia araba, non versetti del Corano, ma alcuni articoli della Costituzione d’Italia, Paese di cui è cittadina già prima del matrimonio. Niente di sensazionale, ben inteso, un’esistenza e un’anima come le altre, coi suoi limiti e le sue fragilità, ma che han ritrovato il filo di un discorso su di sé e il proprio destino grazie al confronto con credenti, foss’anche di altra fede.
Discorso analogo si potrebbe fare per l’ambiente carcerario. Seguo da anni, in tre prigioni diverse di cui due fuori Milano, un povero arabo condannato a 11 anni come "scafista" per aver aiutato i primi profughi siriani ad acquistare biglietti ferroviari per altre destinazioni europee. Negli atti del processo i profughi erano "presumibili" tali, poiché nessuno li identificava: altrimenti a causa degli accordi di Dublino avremmo dovuto tenerceli. Ho testimoniato al processo dicendo che lui ha forse peccato d’ingenuità e generosità (sua nonna era siriana), ma in fondo ci stava facendo un piacere. Durante i 6 anni di carcerazione ha chiesto anche d’incontrare i cappellani, una volta su tre gli è andata bene. Le altre due persone, impreparate e forse spaventate, non gli hanno risposto, eppure nel Corano si parla di Gesù, "verbo" di Dio "gettato" nel ventre della vergine Maria, massimo "profeta", dopo Maometto e Mosè, più di loro dotato di poteri taumaturgici: guarigioni e resurrezioni dai morti, col permesso di Dio. Forse se questi sacerdoti avessero avuto una formazione più adeguata non avrebbero disatteso le aspettative di un detenuto musulmano.
La Missio ad Gentes ci attende ormai fuori dal portone di casa. Meno esotica e avventurosa rispetto a quella dei secoli passati, ma non meno reale e pressante. Siamo in grado di rispondervi? Qualche musulmano interessato alla fede cristiana ho dovuto indirizzarlo altrove. Non esiste, nella diocesi cattolica più popolosa al mondo, alcuna forma di accompagnamento per chi fosse orientato a una eventuale conversione. A Vienna l’ho vista operare coi miei occhi, valorizzando anche accademici plurilingue, a dire il vero con un interesse autentico da parte di afghani o iraniani più che di arabi.

La cosa positiva è che si è riuscito con immani fatiche a fargli ottenere per gli ultimi mesi gli arresti domiciliari: socialmente non pericoloso, abita ora in un appartamento sorvegliato da cui può uscire solo due ore al giorno. Se avesse un lavoro potrebbe non soltanto rimanere all’esterno di più, ma contribuire alle sue spese e aiutare la famiglia rimasta nel paese d’origine (è un ottimo elettricista e sa far di tutto, ma ha lavorato quasi sempre in nero, piaga ben nota anche agli italiani, ma che per gli immigrati è una condanna alla clandestinità. Chi avesse lavoro per lui contatti lettere@avvenire.it). La Buona Novella passa anche attraverso queste misere storie parzialmente a lieto fine. L’unica speranza è poter togliere l’avverbio "parzialmente", a Dio piacendo o inshallah.

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