sabato 11 agosto 2012
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​Fallimento. Alla luce di quanto accaduto negli ultimi decenni e di quanto sta avvenendo in queste settimane col caso Sicilia, si tratta dell’incipit perfetto per una qualunque analisi sulla cosiddetta questione meridionale. Un fallimento che ha radici lontane, ma che stando a Carlo Trigilia affonda comunque nel «perverso rapporto che si è venuto a creare fra politica nazionale e amministrazioni locali per mere ragioni di consenso». Trigilia insegna Sociologia economica alla facoltà di Scienze politiche dell’Università di Firenze, dove dirige il Centro europeo di studi sullo sviluppo locale e regionale, oltre a essere presidente della Fondazione Res di Palermo, che si occupa di ricerche sui problemi del Mezzogiorno. Problemi che studia da anni e sui quali, come spiega nel libro Non c’è Nord senza Sud (il Mulino, pp 155, euro 10), ci sono certezze inconfutabili: «Le politiche di sviluppo per il Sud e le modalità dei finanziamenti sono stati un fallimento; l’arretratezza attuale del Mezzogiorno non è il frutto di troppo esigui trasferimenti dallo Stato; gli incentivi alle imprese sono inutili».È una Caporetto.«Ci sarà un motivo se la questione meridionale era ed è rimasta il principale nodo dell’Unità d’Italia dal 1860 a oggi?».Su questo non ci sono dubbi.«E il motivo non è nell’analisi dei problemi, sempre ben evidenziati dai meridionalisti, né, lo ripeto, nella scarsità di finanziamenti statali, ma nel modo in cui il denaro è stato impiegato».Ci sono schiere di politici e sindacalisti che da decenni invocano maggiori finanziamenti per le regioni del Sud.«E soldi ne sono arrivati tanti. Uno studio presentato dalla Banca d’Italia due anni fa mostra come negli ultimi sessant’anni ci siano stati trasferimenti alle regioni del Sud pari a circa 60 miliardi di euro l’anno. Non ci sono altre aree italiane che abbiano usufruito di una simile quantità di capitali statali, eppure il divario fra Nord e Sud è cresciuto, non si è innescata una forma di sviluppo autonomo del Meridione e i servizi pubblici più finanziati come la Sanità sono molto meno efficienti che al Nord».Questo vuol dire che...«Che l’attuale processo di integrazione europea e la particolare situazione dell’Italia nel sistema della competizione globale impediscono la prosecuzione di una simile fallimentare politica assistenziale».Ma quali sono le ragioni del fallimento?«La Banca d’Italia ha posto la sua attenzione su fenomeni di opportunismo politico, sulle carenze di cultura civica. Io credo che per comprendere bene il fallimento storico delle politiche per il Sud occorra mettere a fuoco la dimensione socioculturale con la questione politica».Su questa strada si finisce col dire cose che in tanti anni si è sempre voluto nascondere.«Per esempio che le classi politiche locali, molto più che nel resto d’Italia, hanno sfruttato la crescente autonomia regionale e comunale come occasione di costruzione del consenso. In Sicilia, l’incidenza degli impiegati pubblici sul totale degli occupati è quasi doppia rispetto al Nord. La Sanità privata convenzionata al Sud presenta un numero di occupati rispetto alla popolazione nettamente maggiore che al Nord. In sostanza le risorse da utilizzare per le infrastrutture e i servizi collettivi, oltre che per favorire l’essenziale accesso delle imprese ai mercati, sono state utilizzate per il sostegno di occupazione e reddito. E se i fondi europei non sono stati sfruttati è perché pongono vincoli precisi rispetto ai finanziamenti statali».E la questione socioculturale?«Si può dire che la classe politica che si è sviluppata al Sud è anche frutto (a grandi linee) di una certa caratterizzazione degli elettori, più interessati ai vantaggi personali che ai benefici collettivi. Per semplificare, possiamo dire che le ragioni del fallimento attengono: alla classe politica locale; alle caratteristiche culturali dell’elettorato; alla classe politica nazionale, che ha tratto vantaggi dal non imporre vincoli ai finanziamenti statali».Finanziamenti in cambio di voti?«Più precisamente si è creato uno scambio politico, che è la vera ragione del fallimento: io ti do risorse, tu le usi, io non controllo, tu mi porti voti per il governo nazionale».Se la diagnosi è corretta l’attuale governo tecnico potrebbe osare l’inosabile.«È ciò che si intravede nelle prese di posizione di Monti sulla contingente questione siciliana. Non bisogna tagliare i finanziamenti, ma legarli a controlli e obblighi di responsabilità. Poi bisogna troncare con gli incentivi alle imprese e promuovere servizi e infrastrutture».Ma come, si è sempre parlato della necessità di incentivi alle imprese?«Secondo Bankitalia le realtà più dinamiche del Mezzogiorno sono svincolate dagli incentivi. Allo stesso tempo, là dove ci sono più servizi e più integrazione fra ricerca universitaria e impresa, ci sono le realtà più efficienti, come nei distretti di Bari e Catania. A Palermo, invece, che ha un’Università di prestigio per ricerche e pubblicazioni, non capita la stessa cosa per l’assenza di connessioni col territorio. Ma Bari e Catania, paragonate a qualunque distretto universitario del Centro-Nord, passano in seconda fila».Quali sono i settori da valorizzare?«Per prima cosa l’agricoltura. Nel Sud ci sono potenziali enormi per l’agroalimentare. Si pensi ai vini, a prodotti come mandorle, pomodori, farina di carrube, pistacchi e non solo. Ma se metto a confronto Ragusa a Cesena, province con equivalenti potenzialità agricole, scopro che Ragusa è penalizzata dalla mancanza di industrie di trasformazione, di infrastrutture e servizi. Lo stesso vale per i beni culturali: Siracusa ha le potenzialità di Ravenna, ma Ravenna le sfrutta di più perché i suoi musei e le sue opere d’arte possono servirsi di infrastrutture culturali e di comunicazione che a Siracusa nessuno ha mai sviluppato».
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