venerdì 27 gennaio 2017
Il fuoriclasse olandese del grande Milan anni 80: «Dio mi ha donato il talento, Cruijff mi ha insegnato a mettermi al servizio della squadra. Mandela il mio mito»
Gullit il mio calcio felice
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Le trecce rasta del “Bob Marley” del calcio olandese sono sparite dal 2000, i baffi poco prima o poco dopo... Ma il carisma, il sorriso scanzonato ed allegro è quello dell’idolo dei ragazzini degli anni ’80 cresciuti a pane e nutella, che era dolce come quel pallone di allora. «Il vostro, quello italiano era il campionato più bello, il più ricco e anche il più felice», dice il possente e sempre verde “Tulipano nero”, splendido 54enne che dal centro del campo è passato alla tribuna degli stadi, in Olanda lavora come commentatore televisivo. Ma nella memoria di cuoio rimarrà per sempre il gigante (190 centimetri di bontà) con le trecce al vento che a Gianni Brera facevano balenare la criniera leonina di «Simba». Un uomo in fuga Ruud, di corsa nella selva di terzini da dribblare e portieri da mettere a sedere, tutti basiti dal suo strapotere fisico e tecnico. Al caro vecchio Vujadin Boskov che l’ebbe alla Sampdoria faceva dire estasiato: «Gullit è come cervo che esce di foresta». Uno così aveva stregato persino il genio teatrale di Carmelo Bene, milanista e riveriano che al cospetto dell’olandese volante declamò amletico: «Maradona vale dieci. Gullit è fuori classifica. Uno così mancava dai tempi di Pelè. È l’avvenire, è lo spettacolo...». Gullit in tour per presentare in Italia il suo libro Non guardare la palla non sapeva di avere un fan come Carmelo Bene, così come non sa ancora oggi «come la gente mi vede, cosa hanno visto in me i bambini di ieri o cosa vedono quelli di oggi. Ma magari è meglio, così ho potuto mantenere sempre i piedi per terra». Trent’anni dopo il grande Milan - di Sacchi e poi di Capello e degli olandesi magici, Gullit, Van Basten e Rijkaard - quello visto con gli occhi di un ex ragazzo degli anni ’80 rimane il più grande spettacolo del weekend calcistico.

Rispetto ad allora quanto è cambiato il calcio?
«Tanto, quasi tutto. Ma anche fuori le cose sono cambiate e molto in fretta. Per esempio questo non c’era - indica il cellulare - Le paytv sono arrivate quando dal Milan passai alla Samp e solo al Chelsea mi resi conto che ormai il calcio stava diventando principalmente uno spettacolo televisivo. Anche il gioco ha subìto un cambiamento, un accelerazione improvvisa. Se mi capita di rivedere una mia partita dei tempi del Milan sembra che andiamo alla metà della velocità dei calciatori di adesso».

Eppure voi olandesi andavate veloci e professavate il “calcio totale” in quanto discepoli dell’immenso Johan Cruijff.
«Cruijff è stato un personaggio unico, incredibile: ha messo l’Olanda sulla mappa del calcio mondiale e ha lasciato in eredità dei valori importanti alla mia generazione e a quelle a venire. Ho giocato un solo anno con lui, nel Feyenord, vincemmo campionato e Coppa d’Olanda, ma in quella stagione (1983’84) mi insegnò tutti i trucchi del mestiere e mi mise in guardia dai pericoli che avrei incontrato lungo la mia carriera. Cruijff mi ha fatto capire che un grande calciatore prima di giocare per se stesso deve far giocare bene i suoi compagni, e poi con l’età ho compreso il senso di quel suo “ogni svantaggio è un vantaggio”».


Van Basten è stato il vero erede di Cruijff?
«Marco tecnicamente è quello che più si è avvicinato a Cruijff, ma era più finalizzatore rispetto a Johan che a sua volta spaziava a piacimento. Con Rijkaard, Van Basten è stato un fratello in campo e fuori. Solo la sfortuna degli infortuni poteva fermarlo: ha sofferto tanto per quell’addio al calcio a 27 anni, ma è un dolore che ha sempre tenuto nascosto dentro di sé... Però attenzione, Marco è tutt’altro che un uomo triste, è un grande umorista, ci sentiamo spesso e ridiamo un sacco».

Quel vostro Milan ha vinto tanto e fatto piangere gli avversari, al Real Madrid e il Barcellona di allora davate sonore lezioni di calcio.
«Eravamo una macchina perfetta, inarrestabile. Noi olandesi al servizio delle idee rivoluzionarie di Arrigo Sacchi abbiamo messo la fisicità, il nostro spirito offensivo, ma abbiamo anche imparato tanto tatticamente dagli italiani di quel Milan, Baresi, Maldini, Tassotti, Ancelotti, Donadoni... Fabio Capello? Ha proseguito al meglio il lavoro iniziato da Sacchi, tenendo conto che aveva il problema di organizzare il turnover degli stranieri, che non erano più tre come quando siamo arrivati io, Marco e Frank, e Capello c’è riuscito alla grande».


Molti dicono sarebbe meglio tornare a rose con al massimo tre stranieri, ne gioverebbero i talenti italiani.
«Non sono d’accordo, quello dei tanti stranieri in squadra è l’evoluzione del calcio globale e va accettata. Magari la differenza è che ieri in Italia c’era più selezione e anche maggiori disponibilità finanziarie così arrivavano solo gli stranieri più forti. Ma in questo momento la crisi economica è uno svantaggio che per i club della Serie A si è trasformato in un vantaggio visto i tanti giovani italiani che sono stati lanciati».

Infatti, pare rinata anche la grande scuola difensiva italiana.
«Quella è una scuola eterna e difensori come Chiellini e Bonucci lo confermano. Che duelli fantastici ho avuto con Ferri, Bergomi, Vierchowod... Tutta gente dura, difficile da superare, ma leale. E quella lealtà difensiva è un marchio italiano».

Ricorda quel ragazzino che esordì a 16 anni nel Milan, Paolo Maldini... Non le fa impressione che la “bandiera milanista” sventoli fuori dal mondo del calcio?
«Paolo Maldini è stato un fenomeno, l’ho conosciuto che aveva 18 anni ma aveva una forza fisica e mentale da veterano. Io non so quale sia la sua ambizione attuale, non so se vuole diventare un dirigente di club o un presidente di federazione o della Uefa come Michel Platini, ma Maldini rimane un esempio di calciatore e di uomo per tutti quelli che amano questo sport».

Ha citato Michel Platini, anche lui ora è fuori dal calcio e dalla Uefa, ma per via dello scandalo “corruzione”.
«Mi dispiace molto, perché io voglio molto bene a Platini, così come voglio bene a Maradona e a tutti quelli che hanno vissuto il calcio come me, con la voglia di divertirsi e di divertire la gente».

In un mondo ancora fortemente minato dal razzismo quando Gullit scendeva in campo non si sentiva un testimonial di tutti gli uomini e le donne di colore?
«In Italia ai tempi era venuta fuori la Lega Nord e negli stadi c’era più razzismo tra tifosi delle squadre del settentrione contro quelli del sud che nei confronti dei calciatori di colore. Io non ho usato lo sport per lanciare dei messaggi, ma solo per esprimere ciò che sono come atleta e come persona. L’unica volta che ho sentito il dovere di omaggiare qualcuno che veramente ha trasmesso qualcosa di importante al mondo è stato nel 1987: quando ho vinto il Pallone d’oro l’ho dedicato a quell’uomo straordinario che è stato e resterà per sempre Nelson Mandela».

Da quel giorno però il Gullit attaccante in campo per l’opinione pubblica divenne il difensore delle sfide sociali.
«Mi sono sempre informato di politica e di sociale anche quando giocavo e ancora oggi faccio quello che posso per aiutare chi sta in difficoltà. In Olanda abbiamo creato una lotteria, alla quale aderisce anche George Clooney e Bill Clinton, che nel tempo è diventata la terza raccolta fondi più importante nel mondo. Ogni anno devolviamo 600 milioni di euro che servono a finanziare progetti solidali in paesi dove sono stato di persona: in Sierra Leone, nelle discariche del Brasile, nei villaggi in mezzo al deserto del Darfour, in Moldavia. Ho visto e toccato con mano la fame e la miseria e so che ognuno di noi, anche con piccoli gesti di generosità, può fare molto per aiutare chi soffre».

Ricordiamo le sue lacrime allo stadio di Firenze nell’ottobre 2008 per la partita benefica un “calcio alla Sla” in favore dell’ex milanista Stefano Borgonovo.
«Con Stefano ci scrivevamo delle email in cui mi faceva ridere per la sua straordinaria ironia, poi quando quel giorno a Firenze l’ho riabbracciato sono stato male... Mi sono reso conto di quanto fosse duro per lui e per la sua famiglia affrontare tutti i giorni quella malattia. In Olanda un altro calciatore, Fernando Ricksen, sta combattendo contro la Sclerosi laterale amiotrofica e io spero che la scienza trovi presto la soluzione per far guarire tutti coloro che ne sono affetti».

Ma la mitica “squadra degli ex”, Van Basten, Kieft, Winter, Van’t Schip... gioca ancora nei campetti delle periferie olandesi?
«Battevamo quelli di vent’anni anche stando immobili, ma io non gioco più: queste - indica le ginocchia - mi fanno troppo male. Il professionismo - sorride - non è sano. Quando per decenni pratichi calcio ad alto livello vieni spremuto e alla fine è normale che paghi dazio. Però a uno dei miei sei figli che gioca in Olanda, Maxim, dico sempre che ne è valsa la pena. Se sono un uomo fortunato e felice lo devo esclusivamente al calcio, e devo ringraziare Dio per il talento che mi ha donato».


Il libro - Va dove ti porta il pallone
«Come giocatore dovevi sapere esattamente cosa fare se Ancelotti, Van Basten o Albertini perdevano il pallone mentre andavano all’attacco». Sono alcune delle “teorie” di Ruud Gullit che si leggono nel suo libro Non guardare la palla. Che cos’è (davvero) il calcio (Piemme, pagine 318, euro 18,50). Non è la classica autobiografia del campione che racconta nel dettaglio le sfide in campo o sciorina i suoi successi (3 scudetti, 2 Coppe dei Campioni, una Intercontinentale, solo con il Milan, più un Pallone d’oro nel 1987 e l’Europeo con l’Olanda nell’88), ma un testo didattico sul gioco più bello del mondo.

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