mercoledì 12 luglio 2017
Il totem azzurro che ha vinto tanto in vasca e a bordo da ct parla alla vigilia della kermesse iridata: «La pallanuoto mi ha insegnato il rispetto per la vita e per il prossimo. Ora il Settebello.3»
Il ct Sandro Campagna con i suoi ragazzi del Settebello

Il ct Sandro Campagna con i suoi ragazzi del Settebello

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La pallanuoto in Italia oggi ha un nome e un cognome: Sandro Campagna. Non è un caso se nella storia di questo sport degli ultimi quarant’anni c’è sempre la sua firma, prima da giocatore e ora da allenatore della Nazionale. Era il 1980 quando a soli diciassette anni esordiva in Serie A. Palermitano di nascita, ma siracusano d’adozione, ha fatto le fortune di due soli club: la sua Ortigia di cui è diventato bandiera e Roma con la quale ha vinto Coppa delle Coppe e Coppa Len. Con la calottina della Nazionale ha vinto tutto, imponendosi tra i leader di quel Settebello dei record di Ratko Rudic che portò a casa un Grande Slam da favola dal 1992 al 1995: le Olimpiadi di Barcellona, la Coppa Fina di Atene, i Campionati Europei di Sheffield e Vienna e i Campionati Mondiali di Roma. 409 partite disputate e un futuro già scritto in panchina prima come vice di Rudic poi da solo al comando con un palmarés travolgente già a livello juniores. A bordo vasca della Nazionale maggiore c’è dall’inizio del millennio, con una sola parentesi dal 2003 al 2008 come allenatore dalla Grecia. Il bottino da ct annovera tanti podi europei ma soprattutto il ritorno sul trono mondiale a Shanghai 2011 che ha segnato un nuovo punto di svolta con l’argento olimpico di Londra 2012 e il bronzo ai Giochi di Rio 2016. Oggi a 54 anni, di cui quasi tutti da protagonista in acqua o fuori, il totem azzurro è pronto a guidare ancora l’Italia ai Mondiali di Budapest che si aprono venerdì 14 luglio. Con lo spirito di chi dallo sport ha imparato «rispetto per la vita e per il prossimo» e con la saggezza del buon padre di famiglia.

Ripartiamo dalla beffa d’argento della World League che si conferma un torneo stregato per l’Italia visto che non l’abbiamo mai vinto.

«Peccato, questa volta ci siamo arrivati molto vicino. Ma abbiamo perso solo nel finale con la Serbia, che già da qualche anno è la squadra più forte del mondo. Però abbiamo preso coscienza che sia rispetto a loro che alla Croazia il divario è diminuito».

Qual è il nostro obiettivo ai Mondiali?

«Proveremo senz’altro a salire sul podio. Ma questo è anche il primo anno post olimpico, bisogna pensare anche ai giovani in vista di Tokyo 2020. Già a Rio abbiamo fatto diversi innesti e nonostante infortunati di peso abbiamo colto un bronzo per molti inaspettato, mostrando carattere e spirito di sacrificio».

L’anno prossimo taglierà il traguardo di dieci anni consecutivi alla guida della Nazionale. Cosa la rende particolarmente orgoglioso?

«Stiamo ottenendo successi prestigiosi cambiando sempre giocatori. Siamo quasi alla terza generazione ormai. Proviamo a creare il “Settebello.3”. I buoni risultati ci fanno pensare che stiamo lavorando bene, in sinergia con le società e tutto il movimento».

A chi si ispira in panchina?

«Ho imparato tanto da tutti gli allenatori che ho avuto. Anche quando a diciassette anni partecipai al primo raduno della Nazionale giovanile ma poi fui scartato. Il ct di allora mi disse: “Hai bisogno di allenarti di più, ma non ti preoccupare, ti vengo a prendere a casa domattina prima della scuola, iniziamo in piscina alle 6.30. Tu hai le potenzialità per arrivare in alto”. Senza questa fiducia non avrei mai disputato una finale olimpica. La grandezza di un allenatore è quella di credere nei suoi giocatori anche dinanzi alle delusioni. È stato poi Rudic a completarmi nella cultura della disciplina e della forza mentale per trarre giovamento anche dalle sconfitte».

In che modo?

«Bisogna combattere la cultura dell’alibi: la tendenza a scaricare le colpe sempre sugli altri, senza mai chiedersi quali sono le nostre responsabilità. Ecco perché seleziono giocatori non solo per le qualità fisiche e tecniche ma soprattutto per quelle umane. Il mio successo più grande in panchina è la vittoria mondiale del 2011. Non saremmo però arrivati così in alto senza aver capitalizzato la delusione di due anni prima ai mondiali a Roma col risultato storico peggiore per l’Italia, l’undicesimo posto in casa».

Che cosa manca invece a questa Italia rispetto al mitico Settebello di cui ha fatto parte?

«La continuità. Se difficile è raggiungere certi traguardi ancor di più è mantenerli nel tempo. Ma quella squadra aveva umiltà e motivazione. Io dico sempre: dell’ultima medaglia conquistata non ricordo più nulla, mi interessa la prossima. Stiamo però già creando un gruppo forte per i prossimi quattro anni dove accanto ai giovani ci sono veterani che fanno da esempio».

Quanto può esserle d’aiuto un campionato italiano dove domina ormai da anni un’unica squadra (Recco)?

«Certo tecnicamente il torneo si svilisce, e difatti ora anche l’Ungheria ci ha superato perché lì il titolo se lo giocano molte più squadre. E poi maggiore competitività significa anche più interesse da parte dei media. Però dinanzi allo strapotere economico di un club le altre società stanno investendo bene sui giovani e sulla caccia ai talenti. E difatti sono tanti quelli che ho chiamato in Nazionale. Ma il nostro movimento ha bisogno di una migliore progettazione e visibilità. Mi auguro una generazione di dirigenti ex giocatori, appassionati e competenti, che sappia trainare la pallanuoto in Italia».

La sua vita invece è ancora guidata dall’alto?

«Sì, ho sempre sentito una mano ferma dall’alto che mi riportava sui giusti binari. Cerco di migliorare ogni giorno la mia conoscenza di Gesù. Nel mio comodino ho il Vangelo e una volta a settimana ci troviamo con altre persone a commentare la Bibbia. Prego non per vincere ma per la vita. Ho visto tanti pallanuotisti trasformati dalla fede. Cambia la prospettiva pensare che quel che ci circonda è un disegno divino. E che tutto ciò che facciamo si rifletta nell’eternità: la vita è un dono che non finirà. I miei due figli sono il regalo più bello. A loro così come ai miei giocatori dico di non abbandonare mai i propri desideri e i propri sogni. Mi ritengo un lottatore e penso che la perseveranza sia una dote decisiva non solo degli sportivi, ma soprattutto dei grandi uomini».

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