Simón López Trujillo: «Come comprendere la natura che cambia»
Il romanzo "Il vasto territorio" intreccia denuncia ecologica, memoria collettiva e filosofia, costruendo una riflessione radicale sull’ambiente in cui viviamo

Natura e potere, monocoltura e memoria, funghi e filosofia. Il vasto territorio (Mercurio, pagine 144, euro 15,00) è un libro che riflette sulle contraddizioni (ambientali e sociali) del presente muovendosi tra ecologia e realismo. L’autore, Simón López Trujillo, partendo da una denuncia dell’industria forestale nel sud del Cile, costruisce un’opera che si nutre di riferimenti letterari, riflessioni politiche e uno sguardo critico alla modernità, ma soprattutto inscena un’apocalisse per interrogarsi sul disboscamento, sugli effetti e le risposte dell’uomo alla crisi ambientale. Lo fa con un’immaginazione che si allarga a temi quali il capitalismo estrattivo, il trauma collettivo e la necessità – oggi più che mai – di riattivare forme di empatia e relazione con l’altro.
Il tuo è un racconto metaforico sugli effetti nocivi della monocoltura. Un tema urgente ma ancora poco considerato. Come è nata l’idea?
«Ho iniziato a scrivere questo romanzo come un libro di denuncia, in particolare delle conseguenze dell’industria forestale nel sud del Cile. Inizialmente doveva essere pubblicato nel 2020, ma alla fine ho trascorso quell’anno rinchiuso in un confino pandemico, facendo ricerche sulla silvicoltura, sui funghi, su Spinoza, sui movimenti operai e leggendo i romanzi del miglior realismo sociale cileno, soprattutto Manuel Rojas, Marta Brunet e Carlos Droguett. Nel frattempo, la bozza del libro è cresciuta, ma la mia editor mi fece notare che nell’ansia di rendere conto di un argomento così complesso, stavo perdendo tutto il potenziale metaforico e immaginativo della storia. Al di là della storia e del suo background, quindi, credo che le molteplici metafore e i giochi che compongono il linguaggio del romanzo conservino un po’ di opacità, fondamentale perché l’immaginazione e i sensi del lettore possano illuminarsi d’esperienza».
Che cos’è per lei la letteratura e come può utilizzare il suo potenziale per trasmettere messaggi politici, sociali, ambientali?
«Non ho idea di cosa sia la letteratura o a cosa serva, ma mi considero un buon lettore. O almeno un lettore entusiasta. E credo che un’opera mi piaccia di più proprio quando mi costringe a fermarmi. A lasciarmi trascinare via da me stesso e dalle mie convinzioni sul mondo. Viviamo in un’epoca in cui l’arte ha naturalizzato un rapporto molto precario tra forma e contenuto e in cui, nella circolazione dei social, anche la più vaga nozione di “politico” finisce per essere utile agli autori. In letteratura, sono più interessato a una politica a livello di immanenza che di contenuti o temi. Un buon libro è capace di aprirci a nuove esperienze con il linguaggio, a un lavoro complesso a livello di empatia e sensibilità. Confido perciò che la lettura dei romanzi rimanga ciò che è sempre stata: un viaggio solitario, capace di scuotere ciò che pensiamo di essere. A pensarci bene, però, ci sarebbe forse, in letteratura, un intreccio intertestuale simile a quello dei funghi con le radici degli alberi in una foresta: una costellazione sotterranea di voci vive e morte, che sostiene ciò che osserviamo in superficie».
Nel suo romanzo lei in effetti parla di funghi ed è una riflessione che apre a discorsi come la sostenibilità e la biodiversità, ma non solo.
«L’idea di questo romanzo mi è venuta dopo aver visto un documentario in cui si parlava di persone colpite da un’epidemia di Cryptococcus gattii, un tipo di fungo infettivo che di solito è endemico dell’eucalipto. Mi sono chiesto: e se questo fosse accaduto in Cile, dove abbiamo più di tre milioni di ettari di piantagioni arboree monocolturali, principalmente pini ed eucalipti? In ogni caso, non credo che la risposta alle questioni che si sviluppano nel libro sia la sostenibilità ecologica. Personalmente non sono interessato a una difesa della natura in astratto, separata dalle questioni della proprietà della terra, della memoria e dei processi produttivi. Come direbbe Jason Moore, l’opposizione statica tra umanità e natura è un ambientalismo che serve solo ai Paesi ricchi del primo mondo. Nel romanzo, le storie di Giovanna e Pedro e dei loro figli si muovono su binari paralleli. Hanno due visioni completamente diverse della natura, del lavoro, degli affetti e della memoria, e mi interessava sottolineare le conseguenze che questa differenza di classe poteva avere sulla trama. Mi interessava esplorare come le idee di sostenibilità e biodiversità fossero sfruttate dalle stesse aziende che si occupano di smantellare la natura».
Nel libro lei parla anche di chiesa evangelica. Che ruolo ha oggi in Cile e più in generale in Sudamerica? E che rapporto ha con la politica?
«In America Latina gli evangelici svolgono un ruolo molto importante. Sebbene sia una chiesa molto conservatrice, è presente anche nei luoghi più remoti del continente. E sono spazi che prosperano dove di solito c’è poca presenza dello Stato».
Il suo libro è dedicato a Rodrigo Cisterna, un lavoratore ucciso nel 2007 durante una protesta nel sud del Cile.
«Rodrigo era un operaio forestale cileno, ucciso dalla polizia durante uno scontro per chiedere migliori condizioni di lavoro per migliaia di lavoratori. La sua morte è diventata un simbolo della lotta sindacale cilena, perché rimane ancora impunita. È a partire dal suo caso che ho iniziato un’indagine sul modello forestale cileno e sul suo legame con i decreti e i massacri di lavoratori compiuti durante la dittatura di Pinochet. Mi interessava l’idea di un paesaggio complice, che il romanzo potesse generare sospetti su quale memoria e quale storia abbiano reso possibile il paesaggio che abbiamo di fronte».
Quali sono o possono essere oggi gli spazi di resistenza all’interno dei processi di deforestazione che hanno effetti così distruttivi sull’ambiente?
«La strategia sembra essere la stessa di sempre: la faticosa epopea minore della lotta diretta. Nel caso dei Mapuche, la situazione è più complessa e la loro resistenza contro le imprese installate sul loro territorio ha diverse varianti, alcune delle quali sono disposte a impegnarsi nella lotta armata e altre preferiscono la via istituzionale. In entrambi i casi, si tratta di un processo in corso, ma che offre e contesta altre possibilità per il futuro. Oggi si parla sempre della fine del mondo, ma dobbiamo chiederci quale mondo stia finendo. In un certo senso oggi la crisi climatica ha portato l’apocalisse nel primo mondo e per la prima volta sembra inglobarci tutti. Ma, parafrasando Eduardo Viveiros de Castro, la colonizzazione dell’America era già la fine del mondo per gli indigeni del continente. Così come la successiva devastazione con l’arrivo degli Stati nazionali e, nel caso cileno, la tortuosa fine del mondo che la dittatura ha comportato per migliaia di persone e processi sociali che si erano accumulati. E, in tutti questi casi, l’umanità è riuscita a superare e a riarticolare se stessa in nuove forme di comunità. Sì, il mio è un romanzo sui funghi e sui diversi modi di guardare a ciò che intendiamo per natura. Ma più che una resa cieca al post-umanesimo, mi interessa una difesa della memoria e dell’umanità come progetti che sembrano minacciati da una nuova forza storica, che si nutre proprio di uno sradicamento di ciò che fonda il carattere più umano dell’umano: la possibilità dell’empatia e dell’incontro con l’altro riconosciuto come altra forma di sé. In questo processo, sono certo che la letteratura abbia ancora un ruolo da svolgere».
Nel libro cita l’Etica di Spinoza e parla del fatto che in natura nulla si dà senza che qualcosa di più potente lo distrugga.
«Il vasto territorio è il mio romanzo spinozista. Gran parte di esso, le visioni del mondo e della natura che lo popolano, le riflessioni spirituali e persino gran parte del suo linguaggio, provengono dall’opera di “due Spinoza”: Baruch Spinoza, il grande filosofo moderno, e Juan de Espinosa Medrano, poeta barocco peruviano, entrambi del XVII secolo. Il romanzo è ricco di citazioni, riscritture e riferimenti alle opere di entrambi. E, nel caso del filosofo, mi interessava rivendicare una certa tradizione filosofica contemporanea che vede Spinoza come un pensatore latinoamericano. Nonostante la distanza temporale e geografica, la sua opera è una delle poche nella storia della filosofia politica che considera gli affetti e le passioni come variabili importanti nella teoria politica e che difende anche un’opzione radicale per la democrazia, in tempi in cui la tirannia sembrava l’unico modello politico razionale».
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