Patrick McGuinness: «I miei versi, un’elegia per le città industriali»

In “Linea fissa”, l'ultima sua opera, il poeta galleseparla della madrebelga morta e della fabbrica dove lavorava il nonno
August 22, 2025
Patrick McGuinness: «I miei versi, un’elegia per le città industriali»
Lorenzo Dalberto / Alamy Stock Photo | Patrick McGuinness
Patrick McGuinness è un autore versatile: gallese classe 1968, docente di Francese e Letterature comparate al St Anne’s College di Oxford, si muove tra critica accademica, attività di romanziere e di poeta con risultati lusinghieri. Per Interno Poesia è appena uscita la sua terza silloge, Linea fissa (a cura di Giorgia Sensi, prefazione di Philip Morre, pagine 160, euro 15,00), un testo in cui molta attenzione è data al «rumore che fanno le cose quando partono». La scomparsa della madre (di origine belga) e il suo manifestarsi improvviso – come passero, spia, ostaggio, profumo, specchio –, e poi fabbriche, telefoni, saluti, stazioni fantasma, caffè di frontiera: il paesaggio di McGuinness, percorso da un forte «senso del paradosso» (Morre), è popolato di addii e rovine che sperimentano l’assenza quale condizione ontologica. «Il giorno è già finito, diceva / e ne era convinta. / Spezzava i tempi dentro di me, / mi faceva vivere come se stessi evaporando: / mi diceva che non sarei mai stato / mio contemporaneo».
Professore, la sua poetica è fatta di precisi rimandi metaforici.
«Non sono sicuro di avere una poetica in senso pratico, ma credo nella poesia che si costruisce a livello di immagini e metafore, e nella poesia che vuole comunicare, non complicare. Credo nell’artigianato e nell’arte, e nel controllo dei sentimenti, non nel vomitarli su una pagina dopo aver mangiato un dizionario. Non mi interessa la poesia che parla solo di sé, e mi annoia particolarmente la poesia sull’“identità”. È ora che capiamo che la nostra identità è spesso la cosa meno interessante di noi».
Linea fissa è un libro sulla mancanza e sul linguaggio. Le liriche dedicate alla memoria di sua madre ricordano forse alcuni testi di Adam Zagajewski. Altre sono legate a scenari postindustriali. Qual è il filo narrativo che le unisce?
«La mia poesia racconta spesso la perdita e l’assenza: ciò che non c’è rimane, in un certo senso, sempre lì, finché viene ricordato ed espresso a parole. Mia madre e io parlavamo francese, ma scrivo poesie in inglese (per via del mio percorso scolastico, della mia formazione etc.), quindi ho la sensazione di comporre in una lingua a metà strada tra il francese e l’inglese. Ritengo che la poesia sia una lingua dentro una lingua, dentro diverse lingue. Come dicevo, scrivo di perdite ma spesso di perdite concrete (non astratte): le forme delle città industriali che ho conosciuto da bambino, le persone e i modi di parlare in un mondo che è cambiato negli ultimi cinquant’anni più di quanto chiunque si aspettasse, più di quanto qualsiasi politico ci avesse predetto. Considero il mio lavoro un’elegia di lunga durata per il passato recente, non per quello antico. Posso andare a vedere statue romane in un museo, o visitare Pompei, ma non posso andare a vedere la fabbrica dove lavorava mio nonno cinquant’anni fa, o i luoghi in cui mia nonna andava a comprare i tessuti per il suo lavoro di sarta tra i quattordici e i settant’anni. Sono queste le cose che mi interessano».
Lei è anche autore di due romanzi, The Last Hundred Days (2011) e Throw Me to the Wolves (tr. it. Gettami ai lupi, Guanda, 2019). Qual è il rapporto tra scrittura poetica e scrittura in prosa?
«Considero le due cose – il testo poetico e quello in prosa – completamente diverse, ma reciprocamente vantaggiose. Spesso trattano anche gli stessi argomenti: la memoria e la perdita. The Last Hundred Days parla della caduta del regime di Ceausescu in Romania nel 1989. È lungo quattrocento pagine. Ma ho una poesia sullo stesso argomento, lunga solo una pagina. Throw Me to the Wolves è un romanzo di trecento pagine sugli abusi nei college inglesi e ho anche una poesia di cinque versi su un argomento simile. Hanno regole diverse, ma il materiale si muove e cambia forma».
Qual è, invece, il suo legame con la poesia francese? E, più in generale, quali sono i suoi modelli letterari?
«Amo la poesia francese, eppure non mi offre veri e propri modelli. Adoro Mallarmé e Baudelaire, e imparo molto sulla mia scrittura traducendo dal francese. Tuttavia, i miei punti di riferimento sarebbero, in lingua inglese, Thom Gunn e, in francese, probabilmente poeti come Jean Follain e Guy Goffette. Una delle mie liriche preferite è Forse un mattino andando di Eugenio Montale, nella quale il poeta si volta e vede la vera epifania, il “miracolo” – non c’è nulla – e si rende conto che la realtà è un’illusione, l’illusione necessaria, e continua il cammino con il suo “segreto”. Ma forse lo sanno tutti, eppure tutti pensiamo di essere gli unici ad aver visto il vuoto, e che quindi conosciamo, ma non condividiamo, il “segreto”. È un testo straordinario, così calmo nel tono, scritto in un linguaggio ordinario, con un modesto sistema rimico, ma con un’apertura così vasta, così profonda e così arguta nel modo in cui si chiude. Ho visto il vuoto, ora proseguo con la mia giornata: vado al lavoro, controllo Facebook, faccio shopping».
Cosa ne pensa dell’attuale situazione politica internazionale?
«Che situazione orribile, vero? Una pagliacciata mortale. Presto non avremo più bisogno di voltarci per vedere il vuoto, perché il vuoto di cui parla Montale sarà davanti a noi».

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