Digitale senza lutto. Davide Sisto: «La IA offre l'illusione del per sempre»

Il tanatologo esplora come intelligenza artificiale, social network e memoria digitale stiano cambiando il nostro rapporto con la morte, la nostalgia, l'elaborazione della perdita
September 16, 2025
Digitale senza lutto. Davide Sisto: «La IA offre l'illusione del per sempre»
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Con Vivere per sempre. L’aldilà ai tempi di ChatGPT (Bollati Boringhieri, pagine 176, euro 14,00), il filosofo Davide Sisto, tra i massimi esperti italiani di tanatologia, torna a indagare il rapporto tra morte e tecnologie. Dopo aver aperto il dibattito nel 2018 con La morte si fa social (sempre Bollati) in questo nuovo lavoro esplora un contesto radicalmente mutato dall’irruzione dell’intelligenza artificiale generativa: non più soltanto profili Facebook che diventano memoriali, ma app e sistemi che promettono di «parlare con i morti» o mantenerne la presenza attraverso avatar e voci sintetiche. Il libro mette poi al centro il concetto di “foreverismo”, nonché la tendenza contemporanea a negare la fine registrando e conservando tutto, in un eterno presente che rischia di cancellare l’elaborazione del lutto e persino la nostalgia. Tratta poi la spettacolarizzazione della morte sui social e il moltiplicarsi dei cimiteri digitali, invitando a riflettere su come il digitale stia cambiando la memoria collettiva e l’esperienza più intima del dolore. Di questi temi Sisto parlerà a Pordenonelegge domani, giovedì 18 settembre, alle 21. Lo abbiamo intervistato per discutere con lui immortalità artificiale, lutto online e della sfida culturale più grande del nostro tempo: accettare la finitezza.
Nei suoi libri ha spesso analizzato il rapporto tra morte e digitale. In che modo l’arrivo dell’IA generativa e di ChatGPT, cambia la questione rispetto a quanto scriveva nel 2018?
«C’è stato un boom di situazioni che stavano cominciando a prendere piede quando ho scritto La morte si fa social, e poi nasceva qualche sporadico esperimento che provava a ridare vita a qualche amico o parente che non c’era più, ma in questi anni tutto ha preso piede attraverso il dialogo con ChatGPT. Uno dei fenomeni più ricorrenti recentemente è stato infatti l’utilizzo dell’IA per dialogare con i morti. Questo capita in particolare nei paesi asiatici».
Come si spiega?
«Credo ci siano ragioni culturali legate a maggiori abitudini a personalizzare esseri artificiali, soprattutto in Giappone, Cina, Corea del Sud, si tende ad animare con una visione quasi animistica, di conseguenza sono Paesi che uniscono tradizioni più religiose con l’aver capito che da un punto di vista capitalistico c’è anche uno spazio di mercato; di conseguenza si stanno moltiplicando le app che permettono di dialogare in videochiamata con il caro defunto, o addirittura si possono avere scambi con il proprio animale domestico (alcuni esempi sono Aldilapp, Thanabot, StoryFile e Alexa, in grado di imitare la voce dei cari defunti); in Occidente ultimamente su Facebook sono nati gruppi di persone che condividono foto di parenti defunti degli anni ’60 e ’70 e chiedono di animarle per farsi abbracciare. Tutto questo è trasversale e tocca qualsiasi fascia di età».
Lei parla di foreverismo. È un modo per esorcizzare la morte o una nuova forma di negazione che rischia di cancellare la possibilità di elaborare il lutto?
«È un neologismo preso in prestito da un filosofo, Grafton Tunner, di cui ho co-tradotto un libro che si intitola così; mi sembra interessante come concetto perché oggi un elemento chiave della società moderna è la registrazione, registriamo qualsiasi cosa; e poiché registriamo così tanto, facciamo finta che il passato non finisca mai e questo intercetta il bisogno per cui l’oblio e la morte non hanno mai luogo».
Lei definisce il foreverismo come “la fine della nostalgia”. In che senso?
«È una citazione da Vladimir Jankélévitch, che definisce la nostalgia come miseria dell’irreversibile. Se togliamo l’irreversibile facciamo in modo che le cose durino per sempre e viene meno la miseria, che è in fondo il senso di assenza e nostalgia; più c’è la possibilità di reiterare all’infinito, meno c’è la nostalgia della fine».
Come sta cambiando la nostra memoria collettiva e come si sono evoluti in questi anni i social nel rapporto con la morte?
«Facebook è diventato un luogo in cui la presenza della morte è stata accettata. È un megafono in cui le persone ricordano le persone, anche quelle famose. Per i meno giovani è anche un luogo che permette di informare a proposito della morte, quindi serve a creare una specie di posto in cui comunicare che il proprio caro è morto. Rispetto ad altri social c’è attenzione maggiore nei confronti del morto, perché è considerato centrale. TikTok è invece un modo per parlare della persona che soffre. È interessante quindi perché è in prima persona: parlo di me per mostrare come sto soffrendo, come sto affrontando ed elaborando il lutto, e così anche YouTube. Instagram sta nel mezzo, è il social più utilizzato da influencer e digital creator, quindi un luogo in cui si cerca di parlare di morte e togliere il tabù, diffondendo contenuti sulla morte in senso lato.
Oggi che il lutto è un’esperienza condivisa e commentata sui social, si perde o si rafforza l’intimità del dolore?
«Non sono d’accordo con chi parla di pornografia del dolore semplicemente perché è esposta online. Non necessariamente il lutto presuppone la difesa di un’intimità personale. Per alcune persone è fondamentale, per tante è un limite e mai come oggi è utile avere spazi che restituiscano una dimensione collettiva del lutto, avuta fino a prima del Novecento, quando era un’esperienza più condivisa; non è una regola per tutti, ma per molte persone aprirsi, esporsi pubblicamente, può essere molto più utile e soddisfacente rispetto all’obbligo di tenere tutto nel privato».
Se il digitale promette di “vivere per sempre”, qual è la vera sfida culturale per il XXI secolo: accettare la finitezza o imparare a convivere con questa nuova forma di immortalità artificiale?
«Stiamo entrando in una sorta di saturazione e bisogna fare in modo che il passato così presente non ci porti a reiterare all’infinito persone e cose a cui siamo affezionati, ritrovandoci in un mondo in cui non si crea nulla di nuovo perché manca un momento di passaggio, una successione temporale tra ciò che finisce e ciò che deve iniziare».

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