venerdì 24 novembre 2023
I magistrati contestano il Tariffario del Ministero della Cultura per le fotografie di opere d'arte e documenti: antieconomico e anacronistico. E la lotta per il controllo si rivela un salasso
Il volto del David di Michelangelo, alle Gallerie dell'Accademia di Firenze

Il volto del David di Michelangelo, alle Gallerie dell'Accademia di Firenze - Jianxiang Wu / Unsplash

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Riproduzioni a pagamento e ostacoli al riuso delle immagini dei beni culturali di proprietà pubblica? Alla Corte dei Conti proprio non piacciono. La magistratura al controllo economico finanziario ha bocciato l’ormai famigerato Decreto ministeriale 161 del 11 aprile 2023 (vale a dire le “Linee guida per la determinazione degli importi minimi dei canoni per la concessione d’uso dei beni in consegna agli istituti e ai luoghi della cultura statali”) con cui il ministero della Cultura ha introdotto un regime oneroso non solo per pubblicare ma anche solo per ottenere (persino se la foto te la fai da solo) ai semplici fini di studio una immagine di opere d’arte e beni librari e archivistici. Ne abbiamo parlato più volte nei mesi scorsi (per esempio qui e qui).

Già nell’ottobre 2022 la Corte si era espressa con parere preventivo sulle “Spese per l’informatica con particolare riguardo alla digitalizzazione del patrimonio culturale italiano - 2016-2020” osservando come “le trasformazioni radicali che il digitale ha prodotto nella nostra società invitano dunque ad abbandonare i tradizionali paradigmi “proprietari”, in favore di una visione del patrimonio culturale più democratica, inclusiva e orizzontale. Le forme di ritorno economico basate sulla “vendita” della singola immagine appaiono anacronistiche e largamente superate poiché, peraltro, palesemente antieconomiche”. Ora nella recente delibera sugli “Esiti dell’attività di controllo svolta nell’anno 2022 e le misure consequenziali adottate dalle amministrazioni” ha bocciato senza appello il Tariffario, osservando come sia in palese contrasto con il “Piano nazionale di digitalizzazione del patrimonio culturale”, adottato nel giugno 2022 dall’Istituto centrale per la digitalizzazione del patrimonio culturale - Digital Library nell’ambito delle misure previste dal Pnrr, dopo una lunga e condivisa discussione.

Il documento spingeva verso l’implementazione, scrive la Corte dei Conti, “del coordinamento delle politiche di digitalizzazione del patrimonio culturale, nella consapevolezza che il tema dovrà essere al centro delle politiche ministeriali con uno sguardo necessariamente intersettoriale”. I giudici infatti hanno osservato che “appare in controtendenza l’adozione del recente decreto Ministeriale con il quale è stato sostanzialmente introdotto un vero e proprio “tariffario” nel campo del riuso e della riproduzione di immagini; così incidendo su temi centrali connessi allo studio ed alla valorizzazione del patrimonio culturale nazionale, nonché ad una più ampia circolazione delle conoscenze. Il diritto comunitario ha sempre fornito precise indicazioni (da ultimo vds. Direttiva (UE) 2019/1024 – Public Sector Information) in tema di libero riuso (Open Access), anche a fini commerciali, delle riproduzioni digitali prodotte dagli istituti culturali pubblici per fini di pubblica fruizione.”

La Corte dei Conti richiama all’attenzione tutti i punti vulnerabili della questione, dall’Open Access alla natura di pubblico dominio delle opere e dei documenti: non solo la legislazione italiana dei beni culturali appare anacronistica, ma i decisori continuano a opporre una contrarietà continuamente smentita dalla prova dei fatti e dalle politiche europee. Per la Corte dei Conti non solo l’Open Access è previsto dalla normativa comunitaria ma “ha da tempo dimostrato di essere un potente moltiplicatore di ricchezza non solo per le stesse istituzioni culturali (si vedano le ben note best practices nazionali ed internazionali), ma anche in termini di incremento del Pil ed è quindi considerato un asset strategico per lo sviluppo sociale, culturale ed economico dei Paesi membri dell’Unione”. Senza contare che l’estensione della tutela alle opere d’arte del diritto di immagine in nome di un opinabile principio di “decoro” è giudicata da molti esperti priva di reali basi giuridiche.

Il nodo è che da una parte nella società digitale è pressoché impossibile ottenere il totale controllo sull’immagine, e dall’altra, salvo qualche sporadico caso, la vendita delle immagini – come ricordava la stessa Corte dei Conti – non è redditizia (e si evita qui di sollevare se la giusta questione della sostenibilità di musei, archivi e biblioteche coincida con la loro “redditività”, termine esplicitamente usato in questi casi dai funzionari ministeriali). Insomma, i costi per far funzionare tutta la macchina delle richieste e delle concessioni sono più alti dei ricavi.

Senza contare il moltiplicarsi dei casi – kafkiani nelle dinamiche ma onerosi non solo per l’utenza ma anche per gli enti, che vedono moltiplicarsi inutilmente le scartoffie digitali – di chi necessità di un’immagine, come quello raccontato giusto un mese fa da Antonio Stella sul “Corriere della Sera” dell'odissea burocratica di una docente per pubblicare a corredo di un articolo su una piccola rivista culturale alcune foto che aveva scattato lei stessa negli Archivi di Stato di Venezia. Il problema è che, con un moto di tipo centralista, il Tariffario è obbligatorio e sottrae ai singoli enti la possibilità di ricorrere a eventuali logiche di gratuità.

La cosa paradossale è che lo stesso ministero si trova ad ammettere l’antieconomicità della stretta sull’uso di immagini di opere di proprietà pubblica ma cadute in pubblico dominio. Riguardo al processo in corso a Stoccarda sull’impiego dell’Uomo vitruviano di Leonardo da parte della Ravensburger senza l’autorizzazione delle Gallerie del’Accademia di Venezia, lo scorso 27 ottobre il capo dell’ufficio legislativo del MiC Antonio Leo Tarasco, nel corso del convegno a Firenze “Il tesoro nascosto. Redditività economica del patrimonio culturale italiano e strumenti di tutela”, ha affermato che «Al 99% la causa a Stuttgart la perderemo. Io ho assistito all’udienza e le cose si mettono – secondo me – non proprio benissimo perché i giudici tedeschi non intendono minimamente (da quello che io ho percepito) lasciare che una propria società sottostia alla giurisdizione di un altro Paese. Dalla discussione è emerso il loro dubbio e il loro atteggiamento, molto problematico (…). Comunque secondo me perdiamo, avendo vinto in Italia». [Nota: il video con l'audio del discorso, presente sul canale YouTube dello stesso Tarasco e in precedenza disponibile a tutti, è stato reso di accesso privato dopo la pubblicazione di questo articolo. NdR, 30 novembre 2023]

Per quanto forse il motivo di una eventuale sconfitta, più che una gelosia protezionistica, possa essere proprio il problema di un impossibile, inesistente copyright, è ancora più interessante quanto Tarasco ha spiegato poco dopo: «Per difendere l'Uomo vitruviano abbiamo dovuto spendere decine di migliaia di euro. L'avvocatura dello Stato non ti difende perché è fuori dai confini nazionali. Quindi devi cercare un avvocato straniero, ingaggialo, pagalo, paga i servizi di traduzione. Tutto questo costa. Chi lo paga? Lo paghiamo noi. Allorquando la Galleria dell'Accademia di Firenze si è rivolta al giudice fiorentino... tutta questa attività chi la paga? La distrazione degli impiegati nello scrivere le memorie a favore dell'avvocatura, e gli avvocati dello Stato chi li paga? C'è un vulnus e va colmato. Come non lo so. C'è un problema effettivamente di modalità della tutela».

Lo stesso Tarasco - dopo aver osservato che tutte le sentenze in Italia si concentrano a Firenze mentre altrove non ce ne sono - invoca a questo riguardo l’intervento in automatico della Corte dei Conti. La stessa però che ha bocciato su tutta la linea l’impianto del Tariffario ministeriale. Pare lecito chiedersi a questo punto dove stia l’eventuale danno erariale, se nel mancato profitto o nella spesa.

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