mercoledì 9 novembre 2011
Un bigotto si rivolse a Giuha che camminava sulla riva di un fiume: «Quando si fa un bagno in queste acque, quale direzione devo tenere? Verso la Mecca o voltarle le spalle?». Giuha rispose: «Devi guardare in direzione dei tuoi abiti, se non vuoi che te li rubino!».

Giuha, divenuto Giufà in certi racconti popolari siciliani, è il protagonista scaltro e ingenuo, saggio e ironico di molti apologhi arabi. Sappiamo che la casistica etica, che si illude di elencare tutte le situazioni umane possibili per attribuire a ciascuna di esse una qualifica morale, è un esercizio indefesso delle morali tradizionali di tante religioni. Spesso a questa preoccupazione si associa l'eccesso di scrupolo e persino la mania legalistica. Al fanatico che gli espone appunto il suo "caso" di osservanza religiosa ossessiva, Giuha reagisce col buonsenso realistico. Anche san Paolo consigliava di essere, sì, semplici «come bambini per quanto riguarda la malizia, ma uomini maturi quanto ai giudizi» (1 Corinzi 14,20). E la maturità comprende un sano pragmatismo, quella concretezza che non si perde nella nebbia di un vago spiritualismo.
Neanche Gesù esitava a suggerirci l'armonia tra la semplicità delle colombe e la prudenza dei serpenti (Matteo 10,16), evitando da un lato l'ingenuità sprovveduta e dall'altro la diffidenza sospettosa. C'è, poi, un altro aspetto che vorremmo mettere in luce ed è il rischio di una religiosità formalistica, piaga che affligge un po' tutte le fedi. La voce dei profeti e dello stesso Gesù è, al riguardo, dirimente: il culto con le sue rigide osservanze separato dalla vita, dalla carità e dalla giustizia è un artificio sacrale e non un atto di vera spiritualità. L'esito di un simile comportamento fatto di ritualismo senz'anima potrebbe essere quello che ironicamente bollava l'autore dei Viaggi di Gulliver, Jonathan Swift: «Abbiamo abbastanza religione per odiare il nostro prossimo, ma non per amarlo».
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