Tra metrica e sonetto la maestria di Caproni dava corpo alle attese
venerdì 18 marzo 2016
Ci si chiede a volte come mai i maggiori, i più sicuri maestri di tecnica poetica del Novecento siano riusciti a trasmettere così poco ai poeti più recenti la loro passione per la tecnica del discorso in versi. Giorgio Caproni, secondo il suo amico e coetaneo Mario Luzi, è stato uno dei nostri poeti in cui l'abilità costruttiva, la musica vocale, l'intarsio di suoni e di significati sono più evidenti, quasi esibiti, fino al punto di trasmettere un'esperienza della fisicità della lingua che può arrivare perfino a monopolizzare l'attenzione di chi legge.Fisicità della lingua e della voce, ma anche dei luoghi e dei movimenti, delle ore del giorno, dei corpi femminili. Nella prefazione al “Terzo libro” (1968) di Caproni, ora ripubblicato da Einaudi (Il “Terzo libro” e altre cose, pagine X+118, euro 11), una raccolta di passaggio ma decisiva nella maturazione di questo poeta tanto letto e amato negli ultimi decenni del secolo scorso, Enrico Testa insiste giustamente sulla presenza della corporeità nel tessuto dello stile. Prima della rarefazione filosofica-teologica caratteristica dei suoi ultimi libri (Il conte di Kevenhüller e Res amissa), Caproni si sente spinto in direzione opposta. Penetra nelle sue radici vitali, acuisce la sensorialità dei suoi stati mentali: «Amore mio, nei vapori di un bar / all'alba, amore mio che inverno / lungo e che brivido attenderti!». Le sue riflessioni sono indistinguibili dall'intensificazione percettiva e da un virtuosismo di modulazioni vocali in cui sembra che si incontrino l'aperta emotività di Saba (o di Sbarbaro) e le labirintiche esplorazioni associative, cenestetiche di Montale. Impressionano soprattutto, in questa raccolta, i sonetti del 1944-45, nei quali l'immediatezza realistica delle annotazioni esclamative annuncia continue esplosioni estatiche di doloroso amore per la vita: «Le giovinette così nude e umane / senza maglia sul fiume, con che miti / membra, presso le pietre acri e l'odore / stupefatto dell'acqua». Sono gli ultimi anni di guerra in un parossismo di attese fra amore e morte: «Io come sono solo sulla terra / coi miei errori, i miei figli, l'infinito / caos dei nomi ormai vacui e la guerra / penetrata nell'ossa!».
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