sabato 5 febbraio 2022
Quando fu eletto Papa, nell'aprile del 2005, Joseph Ratzinger venne presentato da (quasi)
tutta la stampa mondiale come il campione dell'ala più "conservatrice" della Chiesa. E questo secondo il trito cliché del "panzercardinal" che lo accompagnava da quando era Prefetto della Congregazione della Dottrina della Fede. Del tutto immeritatamente, va detto, basti pensare che in quel Conclave il cardinale Carlo Maria Martini, secondo lo stesso cliché esponente di punto dell'ala "progressista", fu tra i sui grandi elettori. Ma quattro mesi dopo quella fama era ancora molto robusta. Così, che la risposta data da Benedetto XVI a un sacerdote in merito alla comunione ai fedeli divorziati, durante l'incontro col clero della diocesi di Aosta, dalla maggior parte dei cronisti fu in primo momento ritenuta troppo "progressista" per essere vera. Noi giornalisti, infatti, non eravamo stati ammessi, per mancanza di spazio, nella piccola chiesa parrocchiale di Introd, e la risposta del Papa era stata riferita da uno dei presenti. E per ricredersi dovettero aspettare la sbobinatura del lungo incontro, che arrivò uno o due giorni dopo.
«Sappiamo tutti – aveva detto Benedetto XVI – che questo è un problema particolarmente doloroso... Nessuno di noi ha una ricetta fatta, anche perché le situazioni sono sempre diverse. Direi particolarmente dolorosa è la situazione di quanti erano sposati in Chiesa, ma non erano veramente credenti e lo hanno fatto per tradizione, e poi trovandosi in un nuovo matrimonio non valido si convertono, trovano la fede e si sentono esclusi dal Sacramento... quando sono stato Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede ho invitato diverse Conferenze episcopali e specialisti a studiare questo problema: un sacramento celebrato senza fede... se realmente si possa trovare qui un momento di invalidità perché al sacramento mancava una dimensione fondamentale. Io personalmente lo pensavo, ma dalle discussioni che abbiamo avuto ho capito che il problema è molto difficile e deve essere ancora approfondito».
Nel 2015, dieci anni dopo, con il Motu Proprio "Mitis Iudex Dominus Iesus", Papa Francesco riformava il processo per la cause di nullità matrimoniali, rendendolo più accessibile e mettendo al centro il vescovo diocesano così da rispondere più facilmente alle richieste dei fedeli. Ciò in quanto quella che va superata, ha ribadito Bergoglio qualche giorno fa parlando alla Rota Romana, è la «visione distorta delle cause matrimoniali, come se in esse si affermassero dei meri interessi soggettivi», mentre è piuttosto da riscoprire «che tutti i partecipanti al processo sono chiamati a concorrere al medesimo obiettivo, quello di far risplendere la verità su un'unione concreta tra un uomo e una donna, arrivando alla conclusione sull'esistenza o meno di un vero matrimonio tra di loro». Dunque quel che è necessario è «favorire la cultura dell'ascolto, presupposto della cultura dell'incontro. Perciò sono deleterie le risposte standard ai problemi concreti delle singole persone. Ciascuna di esse, con la sua esperienza spesso segnata dal dolore, costituisce una concreta "periferia esistenziale"». In questo modo il lavoro al servizio della giustizia «manifesta il volto misericordioso della Chiesa: volto materno che si china su ogni fedele per aiutarlo a fare verità su di sé, risollevandolo dalle sconfitte e dalle fatiche e invitandolo a vivere in pienezza la bellezza del Vangelo».
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