giovedì 3 ottobre 2019
Il rapporto tra genitori e figli deve affrontare sempre, in modo diverso secondo l'età, due temi difficili e tra loro interconnessi: quello della dipendenza e quello della riconoscenza.
Lo sguardo tra genitori e figli è condizionato in modo inevitabile dall'asimmetria originaria della loro relazione; il bambino incontra infatti i propri genitori da una posizione di bisogno e di dipendenza e proietta su di loro un'illusione di onnipotenza. I genitori vengono vissuti, nel bene e nel male, come detentori di un potere straordinario, e da loro ci si aspetta che siano in grado di dare una risposta adeguata ai bisogni di affetto, di cura e di guida che ogni creatura umana porta sempre con sé. Su di loro si proiettano così attese e delusioni, pretese e insoddisfazioni, ben al di là di ciò che corrisponde alla loro umana realtà. C'è poi il periodo dell'adolescenza. In questa fase della vita il figlio sente il bisogno di emanciparsi da una relazione che, se da un lato continua a rassicurarlo, lo stringe dall'altro in immagini di sé infantili e fuori tempo; cerca nuovi rispecchiamenti, nuovi sguardi, nuove esperienze, che gli permettano di diventare "padrone di sé" e di uscire da una dipendenza che ora gli appare soffocante. Il genitore diventa allora talvolta un nemico, oppure più semplicemente qualcuno che non può capirlo: la distanza necessaria per crescere è accompagnata spesso da uno sguardo diffidente e pronto alla difesa.
Ma anche lo sguardo dei genitori sui figli non è sempre uno sguardo libero: anche i genitori infatti costruiscono l'immagine del figlio attraverso una percezione sedimentata nel tempo, e che dipende dalle vicende relazionali che li hanno visti coinvolti insieme. Per questo motivo, i figli sono spesso "ridotti" nella nostra mente a ciò che di loro direttamente conosciamo: il loro essere buoni o cattivi figli, figli obbedienti o ribelli, generosi o egoisti. In fondo, poco sappiamo di ciò che la loro vita è stata ed è al di là dello stretto perimetro del nostro rapporto.
Per noi rimangono sempre e soprattutto figli, e dunque, in qualche modo, in una relazione asimmetrica e di implicita dipendenza. Capita allora che i nostri doni, anche generosi, diventino (o vengano percepiti) come vincoli o come debiti messi sulle loro spalle. In questo caso il figlio, diventato adulto, teme talvolta di doverci dire grazie; come nella parabola del "Figliol prodigo" preferisce allora dire: "Padre, dammi quello che mi spetta". La riconoscenza non è necessaria davanti a ciò che è semplicemente dovuto, e non sentirsi in debito con i propri genitori permette di immaginarsi indipendenti e di coltivare l'idea della propria libertà.
Ma su questo tema, anche la posizione dei genitori non è facile. Infatti, se crescendo non sopportiamo l'idea di dipendere dai nostri genitori, da adulti e da anziani troviamo altrettanto insopportabile immaginare di dover dipendere dai nostri figli. Eppure, c'è un dono che i padri e le madri possono ancora fare per i figli diventati adulti: questo dono consiste proprio nella capacità di accettare e di esprimere anche il proprio bisogno di ricevere. Consiste nel riconoscersi bisognosi dell'aiuto dei propri figli grandi, e nell'accogliere con gioia e riconoscenza tutto quello che fanno per darci aiuto o per manifestarci attenzione e affetto. Consiste nell'imparare ad accettare con serenità la possibilità di "dipendere" in qualche misura da loro, riconoscendo che sono diventati adulti competenti dei quali è possibile fidarsi e ai quali talvolta affidarsi, senza per questo perdere il rispetto che ci è dovuto.
Dire grazie a un figlio è un modo concreto di riconoscergli competenza, e dunque è un modo concreto di riconoscerlo pienamente adulto; così come dire grazie a un genitore, senza temere con questo di essere ancora dipendente da lui, è un modo altrettanto concreto per dimostrare di essere diventati adulti davvero.
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