martedì 19 gennaio 2021
Non soffro molto, mi accorgo, della prigionia di questi mesi. La casa è diventata la mia tana. Forse è normale, invecchiando. O forse per trent'anni, per lavoro, ho viaggiato troppo. Aerei, treni, incroci ignoti, voci straniere, anonime stanze d'albergo, la sera a cena da sola. Ma avevo, da ragazza, un'ansia profonda che mi spingeva a viaggiare. Senza fermarmi, "on the road", come si diceva una volta: una notte qui, una oltre, in un pellegrinaggio irrequieto. Più lontano, più lontano, mi diceva una voce, imperiosa. E sussurrava poi: più lontano, troverai. Io non sapevo ciò che cercavo, e tuttavia andavo, alla ventura. Bagagli in giostra sui nastri degli aeroporti, e taxi indonesiani su cui la radio cantava, incredibilmente: «Marina, Marina, Marina, ti voglio al più presto sposar…». Stanze d'hotel al trentesimo piano, tutte a vetrate su metropoli immense. Vertigine. È forse qui, che dovevo arrivare? Ma non era mai lì. Madri e figli mendicanti negli slum di Kampala, strazianti: è qui, che mi devo fermare? Continuavo a viaggiare, e a tornare inquieta. No, nemmeno stavolta. Nel silenzio della casa, oggi, i figli grandi per la loro strada, mi viene in mente Pascal: «Tu non mi cercheresti, se non mi avessi già trovato». Colui che cercavo mi aspettava qui. Allo specchio vedo i miei capelli grigi. Ma forse, ora, ho trovato.
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