venerdì 7 febbraio 2014
​   Nel 1992 Bollati-Boringhieri dette alle stampe un voluminoso saggio della storica Giovanna Procacci su Soldati e prigionieri italiani nella Grande guerra, poi ristampato nel 2000 e che si vorrebbe veder ristampato ora, a cent’anni di distanza dall’inizio di quella insensata carneficina. (Ed è anche per questo, per evitare che si ripetano i disastri del ’14-’18 e del ’39-’45, anzitutto guerre europee, che dev’esserci cara l’idea di un’Europa unita, di un’Europa saggia). Di esso colpisce soprattutto l’appendice, 124 pagine fitte, in corpo minore, che riproducono le lettere dei prigionieri di guerra italiani bloccate dalla nostra censura militare. Da esse «emerse un soldato molto diverso da quello raffigurato per decenni dall’agiografia patriottica, il buon fante contadino rassegnato e obbediente», bensì «un uomo che alternava alla paura, alla disperazione, all’orrore per la morte che lo circondava, rabbia e ribellione, desideri di vendetta e di fuga». Rileggere oggi queste lettere fa venire i brividi e comunica una sensazione di disperazione impotente, di destino atroce e immodificabile. La stessa che viene da certe pagine di Lussu (Un anno sull’altopiano) o da un racconto di Federico De Roberto che si chiama appunto La paura, e che, oltre a essere un capolavoro, è senza dubbio la narrazione più forte su quegli anni, insieme al non dimenticabile All’ovest niente di nuovo  di Remarque (e al film che ne trasse Milestone nel 1932, il più bello sul tema insieme a L’eterna illusione  di Renoir, Orizzonti di gloria di Kubrick, La Grande Guerra  di Monicelli). Mi vanto di averlo ripescato, per la casa editrice "e/o", molti anni fa, e fa bene "e/o" a riproporlo adesso insieme ad altri racconti dello scrittore catanese sullo stesso argomento. La paura, appunto. E la sensazione della rabbia impotente di chi si vede condannato senza capire il perché e senza averne nessuna colpa a una sorte decisa da poteri lontani e amministrata da funzionari spietati. La sorte dei prigionieri era migliore, infine, perché, come scrisse uno di loro dal carcere alla ragazza che gli era cara, «se io vado sto procieso prederò 4 o 5 anni di caciere cosi non vado piu al fronte e lamia vita e siqura e quidi a dare soto a procieso non fanti pavura». Erano giovani, i soldati della Grande guerra, sono giovani quelli che combattono oggi e si uccidono tra loro, nelle guerre che insanguinano il pianeta. Saranno giovani anche quelli delle guerre che potrebbero ancora venire.
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