domenica 30 aprile 2017
Estasi o interiorità? Colpo di fulmine o pentola sul fuoco? Quando parliamo di felicità, l'idea che ne abbiamo si associa a due tipi di immagini che corrispondono a due modi opposti di rapportarsi al tempo. Il primo tipo, è quello della vita intensa: all'improvviso eccoci sorpresi, folgorati, a bocca aperta. Il secondo, è quello della vita serena: siamo al riparo, nella calma, in un bagno di dolcezza. Là, è lo strappo; qui, la maturazione. Là, l'istante; qui, la durata. Questa separazione delle nostre visioni felici tra il fulmine e il cielo blu, l'avvenimento e l'armonia, il sublime e il piacevole, divide anche il nostro approccio alla bellezza. Gli uni lo provano come un'effrazione: l'apparizione di una passante dal corpo splendido che passeggia sul nostro cuore. Gli altri lo percepiscono come una salita lenta ma irresistibile: la superficie del mare in Grecia, calma e scintillante, ma la cui immensità luminosa e tremante vince a poco a poco la nostra anima. Così è anche per la verità: è visione o cammino, velo che d'un tratto si solleva o dialogo che si protrae? Per il lavoro: è rapido successo o lavoro attento, efficacia immediata o paziente ricominciare? Per la conversione: è Paolo o Pietro, brusca caduta da cavallo o seguire per anni sempre inciampando? Certo è che la nostra epoca sta piuttosto dalla parte della folgorazione. Essa confonde facilmente il veloce e il vivace, forse a causa dell'accelerazione tecnologica, della banda larga e della connessione quasi istantanea che fa spuntare tutto un vellicamento virtuale sullo schermo che un attimo prima era grigio. Voluttà del treno ad alta velocità, ma che impedisce la contemplazione del paesaggio. Ecco perché facciamo tanta fatica ad afferrare il pensiero degli Antichi che cantavano la pace. Ai nostri occhi abbagliati, la pace sembra un sonno; la sua armonia un'inerzia; la sua lunghezza una scipitezza. Quando sant'Agostino la definisce come la «tranquillità dell'ordine», pensiamo quasi alla morte, certamente non alla felicità. Il problema con la ricerca dell'intenso è che rovina la sensibilità. Le sensazioni non sono mai abbastanza forti. Si comincia con il parapendio per passare al salto con l'elastico, la caduta libera col paracadute, il volo in wingsuit e alla fine la caduta libera senza paracadute. Il suicidio sarà sempre di intensità estrema e senza ritorno. Non faccio esempi di tipo carnale, ma, evidentemente, bisognerebbe in questo caso dirigersi verso lo stupro e l'omicidio. Purtroppo, anche l'assassino seriale finisce per annoiarsi: tagliare una donna in pezzi, dai e ridai, lo eccita quanto pelare una patata. Si accorge che ha sbagliato qualcosa. Che si sarebbe potuto fermare alle patate, se fosse stato più sensibile, più capace di stupore. Ecco perché il gusto dell'intensità rovescia facilmente la sua logica per giocare meglio sui contrasti. Si mette al ritmo della lumaca per essere sconvolto dalla velocità della tartaruga. Si resta giorni chiusi nell'oscurità per aprire di colpo le ante e percepire un giorno di grigiore come una formidabile illuminazione. Si digiuna tre giorni e, subito dopo, niente è più intenso, più saporito, niente da più piacere di un pezzo di pane duro. L'ascetismo è il solo metodo per vivere un edonismo che non diventa aceto. Mantenendo per molto tempo un'intensità di vita molto bassa, nella solitudine, anche il mezzo-sorriso di una vecchia signora può apparirci come un'esperienza di una potenza straordinaria. Si comprende perché la questione dell'intensità non è l'unica. La fede sarebbe solamente un colpo di bacchetta magica se tutto si decidesse così, in una caduta da cavallo. L'amore sarebbe solamente illusione e disillusione se si riducesse all'orgasmo. La loro vocazione e la loro prova sono precisamente di passare dall'estasi all'interiore, dal colpo di fulmine alla pentola sul fuoco. I romantici volubili non mancheranno di considerare questo passaggio come un imborghesimento. È perché non riescono a entrare nella profonda poesia del quotidiano.
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