venerdì 20 maggio 2005
Non abbiamo voglia di vincere, ma abbiamo paura di perdere. Quindi ci accontentiamo di pareggiare. Non sempre, non tutti: ma quando accade è un peccato.
Beppe Severgnini è un giornalista e scrittore che conosco e apprezzo da tempo e che è seguito da una folla di lettori. Mi affido a lui oggi per una riflessione che forse s'adatta un po' a tutti. La tentazione di "pareggiare", evitando l'impegno della vittoria e il peso della sconfitta, è la più sottile ma anche la più seguita. Si è, infatti, convinti di stare nel mezzo, di raggiungere un equilibrio di buon senso. In realtà è quel peccato che l'antica tradizione morale chiamava di "omissione". Lo diceva in modo paradossale Pasolini nella sua poesia A un Papa: «Peccare non significa fare il male:/ non fare il bene, questo significa peccare».C'è, però, qualcos'altro da sottolineare nella considerazione di Severgnini. È la paura del rischio. Ora, il credere stesso ha una componente di sfida, altrimenti sarebbe solo calcolo programmato e scontato e non adesione libera, scelta d'amore e di passione. Il filosofo francese Mounier illustrava bene questo timore: «Siamo diventati uomini che hanno paura del salto. Restiamo fermi in riva agli abissi dell'avvenire. Bisogna imparare di nuovo il coraggio di saltare, proprio in quei punti dove la prudenza tace o si blocca». La prudenza del "pareggiare" conduce infatti all'inerzia, alimenta l'egoismo, rende gretti e meschini, incapaci di un fremito, rassegnati al minimo inoffensivo. Ritorniamo, allora, al rischio del credere e dell'amore, del dare e del creare perché questo è il vero vivere.
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