venerdì 11 marzo 2005
Solleva il capo e osserva il cielo:/ l'un l'altra si inseguono le nubi./ Si sfiorano appena e già sono divise,/ perdute, l'una per l'altra./ Così anche noi ci separiamo/ anche noi ci perdiamo, in questo mondo./ Abbassa il capo e guarda il mare:/ l'un l'altra si rincorrono le onde./ Si scontrano appena e già sono divise,/ perdute l'una per l'altra./ Così anche noi ci separiamo,/ anche noi ci perdiamo, in questo mondo. Non so chi sia Marija Andrievskaja, probabilmente una poetessa russa. Trovo i suoi versi incastonati in un album fotografico ove le immagini sono appunto accompagnate da poesie. Forse un po' tutti siamo rimasti incantati - e non solo da piccoli - a contemplare forme e movimenti delle nuvole o l'instancabile fremito della risacca sul litorale del mare. La parabola che i versi citati estraggono da quel flusso ininterrotto è semplice e pertinente. Basta solamente osservare una via di città: mille e mille persone che si sfiorano, talora s'incrociano e persino si scontrano, ma poi si perdono verso direzioni diverse. Anche quelle che una volta erano le relazioni indissolubili come il matrimonio o le amicizie sembrano sempre più essere soste temporanee per riprendere un continuo sfiorarsi superficiale. Sono incontri di corpi e non dialoghi di anime e autentici abbracci d'amore. È per questo che, pur crescendo i contatti, i rapporti, le conoscenze, la società attuale è pervasa di solitudine. E un altro russo più noto, lo scrittore Vladimir Nabokov, allora ci ammoniva che «la solitudine è il campo da gioco di Satana».
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