sabato 2 giugno 2018
Come diceva Jean-Jacques Rousseau «tutti gli esseri umani vogliono essere felici», ma «peraltro, per poter raggiungere una tale condizione, bisogna cominciare col capire che cosa si intende per felicità». Già, perché la domanda è proprio questa: che cos'è la felicità? Che cos'è la gioia? A dar retta ai messaggi che ci bombardano ogni minuto, o anche solo alle fantasie che questi scatenano, la felicità la si può facilmente trovare in un'innumerevole quantità di oggetti, firmati o meno, in un viaggio, in un paradiso artificioso o artificiale; quasi che una giacca griffata o una padella magicamente antiaderente o una pasticca potessero davvero cambiarci la vita. Ma questi, ci ha detto papa Francesco lunedì scorso, sono solamente dei «pezzettini di dolce vita» spacciati dalla cultura odierna come chiavi per la felicità, una cultura che si «inventa tante cose per divertirci». Ma, al contrario, la vera felicità, la vera gioia «non è qualcosa che si compra al mercato», e neppure la si ottiene con grande sforzo, piuttosto «è un dono di Dio». Ed è dunque per questo che la gioia, per chi crede, «è il respiro stesso del cristiano... Il suo modo di esprimersi», tanto da potersi dire che «un cristiano che non è gioioso nel cuore non è un buon cristiano» ma solo una persona «oscura e rattristata» che non fa trasparire quella serenità che è «frutto dello Spirito Santo».
È proprio questo che bisogna aver presente nel percorso che ognuno di noi compie nella ricerca della propria felicità, una ricerca che, come ha detto Benedetto XVI, «percorre varie strade alcune delle quali si rivelano sbagliate, o perlomeno pericolose». Essenziale, allora, è imparare a distinguere «la vera gioia – dice ancora papa Ratzinger – dai piaceri immediati e ingannevoli». Giovanni Paolo II, nel dicembre del 2003, spiegò che «sapere che Dio non è lontano, ma vicino, non indifferente, ma compassionevole, non estraneo, ma Padre misericordioso che ci segue amorevolmente nel rispetto della nostra libertà: tutto questo è motivo di una gioia profonda che le alterne vicende quotidiane non possono scalfire». E dunque «caratteristica inconfondibile della gioia cristiana è che essa può convivere con la sofferenza, perché è tutta basata sull'amore. In effetti, il Signore che ci “è vicino”, al punto da farsi uomo, viene ad infonderci la sua gioia, la gioia di amare. Solo così si capisce la serena letizia dei martiri anche in mezzo alle prove, o il sorriso dei santi della carità dinanzi a chi è nel dolore: un sorriso che non offende, ma consola». Proprio riagganciandosi a questa idea del valore della “memoria” nel definire la gioia cristiana, che ci fa dire che non si può dimenticare «quello che il Signore ha fatto per noi rigenerandoci a nuova vita», martedì scorso Francesco è andato oltre sottolineando come la seconda “gamba” su cui poggia questa gioia sia la speranza per l'incontro futuro con il Figlio di Dio. Questa, allora, è la gioia del cristiano, che si alimenta di memoria e speranza, il messaggio di cui ogni credente deve farsi portatore. Certo, tutt'altra cosa rispetto alla ilarità, al «vivere di risata in risata» perché, ha detto papa Bergoglio, «la gioia non è essere divertente. No, non è quello. È un'altra cosa. La gioia cristiana è la pace. La pace che c'è nelle radici, la pace del cuore, la pace che soltanto Dio ci può dare». Qualcosa di «non facile da custodire» in questa «cultura non gioiosa» in cui siamo immersi e che ci spinge a «cercare le sicurezze dappertutto, cercare il piacere dappertutto». E invece dobbiamo difenderla questa gioia, questo dono dello Spirito, che ci accompagna sempre e vibra «anche nel momento del turbamento, nel momento della prova».
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