venerdì 13 gennaio 2006
Vorrei che le poche persone oneste fossero tutte riunite in una città. Allora sarei ben felice di lasciare il mio eremo per andare a vivere con loro, se mi volessero accogliere in loro compagnia. Sebbene, infatti, rifugga la moltitudine per la quantità di insolenti e importuni che vi si incontra, non smetto di pensare che il più gran bene della vita è gioire della conversazione delle persone che si stimano. È un grosso tomo edito da Bompiani: col testo a fronte ora in latino, ora in francese, ora in olandese, si susseguono Tutte le lettere (1619-1650) del grande filosofo Cartesio. Sfoglio queste pagine che creano un po' la nostalgia per un tempo in cui non si ricorreva ai "messaggini" ma si comunicava, discuteva, ragionava con pacatezza e rigore attraverso la severità e la puntualità del testo scritto. Mi capita, così, di imbattermi nelle righe sopra citate, righe che mi provocano una duplice reazione, di condivisione e di critica. Di condivisione innanzitutto. Ogni tanto, di fronte a tante sciocchezze pubbliche e private, a tanta arroganza ostentata dalla stupidità, si sente la necessità di un discorso più serio, argomentato, sostanzioso. È come un bagno purificatorio del cervello da tanti «insolenti e importuni» che ci ammorbano con le loro sguaiataggini e vacuità. Gli stessi "Esercizi spirituali" volevano essere un'oasi in cui risuonassero solo la parola divina e la voce della coscienza. Detto questo, bisogna però anche essere cauti nei confronti della «città degli onesti» vagheggiata dal filosofo francese. Il rischio di isolarsi dal mondo disprezzandolo può, infatti, generare quella superbia che considera gli altri irredemibili, da assegnare al gregge dei perduti per i quali non mette conto di impegnarci. È quel fariseismo che Gesù aveva bollato, non esitando a incrociare per le strade pubblicani, miserabili, prostitute e peccatori, proprio per «salvare chi era perduto».
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