Alla stazione ferroviaria di Udine il 2 agosto 1944 mia madre, Maddalena Cavina, riuscì a fuggire dal treno della deportazione. Suo padre, Alfredo, era stato fucilato dieci giorni prima dai nazisti, ma lei forse non lo sapeva. Aveva diciassette anni, durante gli interrogatori le SS le avevano rotto un dente. Non aveva rivelato alcunché, non perché fosse un’eroina, ma in quanto non sapeva niente. Fu posta sul treno diretto verso il lager, non dentro il vagone piombato perché non era ebrea, ma sotto la sorveglianza di due ausiliarie tedesche e di una guardia armata. Durante una delle frequenti soste, vide una persona che avrebbe voluto farla fuggire. I due s’intesero a gesti. La prigioniera chiese al soldato il permesso di scendere per andare a prendere un po’ d’acqua. Lui glielo concesse e l’accompagnò. Nel frattempo arrivò un altro convoglio, sulla banchina si formò una piccola folla e mia madre ne approfittò scappando in mezzo alla gente. La guardia venne colta alla sprovvista, se avesse usato il mitra, avrebbe rischiato di fare una strage. Appena fuori l’uomo portò in salvo la giovane facendola salire in bicicletta. Andarono in via Grazzano dove si nascondevano altri partigiani. Oggi una targa davanti alla stazione ricorda l’azione provvidenziale di molte donne durante la guerra.
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