sabato 2 luglio 2011
Il continuo agitarsi in una vita tumultuosa non è segno di operosità ma di irrequietezza della mente.

I telegiornali potrebbero ripetere pari pari i servizi giornalistici dell'anno scorso, tanto invariabile è il rito delle vacanze i cui primi flussi sono già iniziati. Quelle immense distese di auto incolonnate sembrano la riedizione umana del formicaio, come lo sono certe spiagge occupate da corpi in ogni loro metro quadro. Meditiamo, allora, insieme su questa frenesia di movimento che ormai abbraccia l'arco intero dell'anno e tutti i settori della vita (oggi c'è, purtroppo, anche la "mobilità" del lavoro…). Lo facciamo con la sapienza latina di un autore che spreme il succo di un pensiero filosofico antico, Seneca (I sec. d.C.). Dalle sue Lettere a Lucilio (3,5) abbiamo estratto questa nota sull'«irrequietezza» umana.
Mi incuriosisce il vocabolo latino usato, concursatio, che evoca un correre frenetico, accelerato e reiterato. È il restare senza respiro, cioè senza la capacità di pensare, di sostare per contemplare e per capire. L'agitarsi diventa, così, anche un modo per far tacere la coscienza, in maniera da impedire di rendere ragione a sé stessi del proprio agire. La quiete serena per leggere, riflettere, pregare, riposare diventa quasi innaturale. Nel suo libro Quasi una vita (1930), lo scrittore Corrado Alvaro ci ha lasciato, al riguardo, un bozzetto fulminante: «Gli uomini di fatica, di affari, di pensieri, nello stato di riposo, su una spiaggia, per esempio, sembrano di quelle belve in cattività nei giardini zoologici». Raccogliamo, allora, l'appello che Cristo un giorno rivolse ai suoi discepoli: «Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po'!» (Marco 6,31).
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