venerdì 26 ottobre 2018
Con Pietro di tre mesi in braccio ero scesa dal lattaio. C'era una nuova fioriera accanto all'ingresso. Io, uscendo, non l'ho vista. Sono caduta, il bambino ha battuto la testa. In un attimo il mondo mi è crollato addosso. L'ambulanza correva a sirene spiegate. Mi ripetevo: non è vero, è solo un incubo. Pietro piccolissimo nel tubo della Tac. Fare a Dio ogni promessa, purché ce lo ridesse. Ricoverato in osservazione, nel piccolo braccio già un ago pronto per un'anestesia urgente. Tutta la notte a vegliarlo. Un'infermiera ogni ora controllava con una torcia le sue pupille. Nella penombra i minuti gocciolavano lentissimi. Non voleva più sorgere, il sole. Alle otto un medico lo visitò. Poi mi sorrise: «Potete andare a casa». Pazza di gioia, mi cadde lo sguardo su quella stanza del Fatebenefratelli. Era angolare, con due finestre su un incrocio. C'ero già stata, mi dissi, in quella stanza, che anni prima era di un reparto differente. La riconobbi con un colpo al cuore. Lì era ricoverata mia sorella, quando fu fatta la diagnosi. Mia madre aveva guardato quelle stesse finestre, e, come me, aveva pregato. Ma Lucetta era morta a quattordici anni. E ripensai a mia madre, al suo dolore, alla sua ragione stravolta, a certe sue parole crudeli. La perdonai di tutto. In una notte, avevo capito.
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