venerdì 12 dicembre 2003
Supponi che uno col vizio del gioco un bel mattino si dica: «Faccio voto solenne e sacro di non giocare mai più. Questa sera sarà l'ultima volta». Ebbene, amico mio, per quanto strano possa sembrare, io preferirei il comportamento opposto, ossia che il giocatore dicesse: «Tutto il resto della mia vita e tutti i giorni tu potrai giocare, ma questa sera lascia perdere!». Solo così manterrebbe la promessa e sarebbe quasi sicuramente salvo. È purtroppo diventata una sindrome quella del gioco, contro la quale invano s'affannano psicologi, parenti e amici. Sono frequenti, infatti, in questo tempo di giochi, bingo, scommesse, schedine, lotto e altri azzardi anche informatici i casi di rovine economiche, di manie incontrollabili, di drammi familiari. Già l'antico filosofo ebreo medievale Mosè Maimonide (XII sec.) ammoniva nella sua opera Le porte dell'insegnamento che «un giocatore perde sempre: perde denaro, dignità e tempo. E se vince, tesse intorno a sé una tela di ragno», pronta subito a dissolversi. Interessante è il consiglio che rivolge al giocatore il filosofo danese dell'Ottocento Soeren Kierkegaard nel brano da noi citato: più che fare voti solenni e definitivi a partire da domani, è invece meglio smettere una sola volta subito, introducendo così un'eccezione reale e un taglio netto effettivo. Tutto questo vale anche per gli altri vizi. I propositi generali lasciano il tempo che trovano; è iniziare una controffensiva immediata l'atto più costoso perché crea una lacerazione dell'abitudine ed è solo così che si allargherà progressivamente quello squarcio. Lo storico greco Plutarco (I sec. d.C.) nelle sue Vite parallele osservava che «molte cose unite insieme sono indomabili, ma cedono quando uno le affronta poco per volta». È questa la legge dell'impegno perseverante, ben più efficace delle dichiarazioni programmatiche generali. Ed è questa la via da intraprendere, modesta ma impegnativa, sulla via della virtù.
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