giovedì 7 settembre 2017
La razionalità scientifico-tecnica non appare da sola in grado di dare luogo ad una vera e compiuta forma di civiltà. Lo si può constatare volgendo lo sguardo ai grandi mondi esterni all'Occidente, il Medio Oriente e l'Asia intera soprattutto, in cui riemergono grandi tradizioni culturali e religiose. Queste culture e questi popoli si dimostrano molto più permeabili ad accogliere solo una parte della cultura occidentale, vale a dire tutto l'apparato tecnologico-industriale, ma molto meno ad accettare di importare, per usare una parola che andava di moda qualche anno fa, ai tempi della seconda Guerra del Golfo, tutto il nostro modello culturale, il nostro mondo fatto di democrazia e di una visione globale dei diritti umani. Che si porta dietro anche i danni del capitalismo e le vecchie e nuove forme di sfruttamento e schiavitù che impone al resto del mondo. È questa una delle leggi che regolano il processo storico secondo lo studioso inglese Arnold Toynbee, nato nel 1889 e morto nel 1975, che in tutta la sua vita ha indagato il confronto fra le civiltà. A proposito del colonialismo, ad esempio, egli rilevava come quei mondi che l'Occidente aggrediva finivano con l'accettare di buon grado tutto quello che riguardava la tecnologia allora disponibile, ma ben poco della nostra cultura. Lo spiega molto bene il libro Il mondo e l'Occidente, uscito in Inghilterra nel 1953 e in Italia tradotto da Sellerio nel 1992 con la prefazione di Luciano Canfora.
Ecco cosa scrive Toynbee: «Questa legge fa sì che un frammento di una data cultura, staccato del tutto e irradiato all'estero per conto suo, tenda ad incontrare meno resistenza, e quindi a viaggiare più rapidamente e più lontano, che non la cultura globale quando viene irradiata in blocco. La nostra tecnologia occidentale, divorziata dal cristianesimo d'Occidente, è stata accettata non solo in Cina e Giappone ma anche in Russia e in molti Paesi non occidentali dove invece fu respinta fintantoché la si offriva come parte integrante di un sistema di vita uno e indivisibile». Ad alcuni verrà in mente la vicenda dei gesuiti nel Giappone del '600, atrocemente perseguitati (come ha ben raccontato il recente film "Silence" di Scorsese) perché accusati di voler imporre una religione estranea alla tradizione locale. Oppure, e Toynbee ben lo descrive, la Russia del XV secolo che respinse la civiltà occidentale perché chiedeva la conversione al cattolicesimo. Al contrario, ancora i gesuiti in India e in Cina ottennero successi straordinari, almeno per un certo periodo come nel caso di Matteo Ricci, proprio perché adeguarono la loro fede ai costumi e alla mentalità autoctoni: «I gesuiti tentarono di sganciare il cristianesimo dagli ingredienti della civiltà occidentale e di presentarlo agli indù e ai cinesi non come religione locale dell'Occidente ma come religione universale che aveva un messaggio per tutta l'umanità». Spogliando il cristianesimo degli accessori superflui e slegandolo dal modo di pensare occidentale, fu possibile proporlo in veste asiatica in una forma che facesse i conti e anzi incorporasse il meglio della sensibilità e della cultura di quei popoli. Un tentativo che poi fallì soprattutto per dissensi maturati all'interno della Chiesa cattolica, che non accettò quell'esperimento missionario.
Nella sua disamina, che tocca gli ultimi cinque secoli, Toynbee mantiene uno sguardo disincantato. È ben cosciente che nell'arco del confronto «è il mondo che è rimasto colpito – e duramente colpito – dall'Occidente». Egli invita dunque noi lettori europei a provare «ad uscire dalla nativa pelle occidentale e guardare l'incontro fra mondo e Occidente con gli occhi dell'umanità non occidentale, che costituisce la grande maggioranza». In questo senso, le pagine che più affascinano sono quelle che riguardano l'Estremo Oriente: siamo infatti in attesa di una nuova sintesi che possa permettere un incontro fra cristianesimo e culture asiatiche, analogamente a quanto verificatosi nei primi secoli con la cultura e la filosofia greca.
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