domenica 26 settembre 2004
Un giorno fu chiesto a un uomo sapiente: «Hai molti figli: qual è il tuo preferito?». Rispose: «Il figlio che preferisco è il più piccolo finché non è cresciuto; è quello che è assente finché non ritorna; è quello malato finché non guarisce; e quello che è in prigione finché non è liberato; è quello afflitto e infelice finché non è consolato». Limpida ed efficace è questa piccola parabola persiana che ci insegna cosa sia il vero amore. La parzialità nei confronti del più debole è, in realtà, il segno della vera imparzialità. Il pensiero corre spontaneamente a un'altra più celebre e più alta parabola, quella lucana del figlio prodigo di peccato e del padre prodigo di amore (Luca 15, 11-32). Significativa è l'ottusa grettezza del figlio maggiore che ignora la generosità e l'autenticità dell'amore. In lui si rispecchiano tutti coloro che non sanno dare liberamente, senza calcoli o bilance, senza ragionamenti e recriminazioni. L'amore genuino corre dove c'è la piccolezza, l'assenza, la malattia, la miseria e l'infelicità ed elargisce se stesso. E il paradosso è che più si effonde, più si rigenera, a differenza dei beni materiali che, fatti fluire dallo scrigno, finiscono. La lezione dell'antico sapiente persiano è, dunque, la stessa di Cristo il quale percorrerà quella strada fino alle estreme conseguenze, donando anche se stesso perché non c'è amore più grande del consegnare la propria vita - l'estremo bene - a
chi si ama. E nonostante tutto quello che si vede nel mondo, aveva ragione lo scrittore francese F. Mauriac quando diceva che «l'amore è il più bello dei miracoli, benché sia anche il più comune».
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