martedì 30 gennaio 2024
R. aveva 17 anni. Borghesia milanese. Un bel ragazzo, arrabbiato come si doveva, a fine anni Settanta, per stare dalla parte giusta. Era di Lotta Continua. Quindicenne solitaria, non capivo cosa esattamente volessero i “compagni”. Comunque, R. era un capo, un pezzo da novanta. Nelle interminabili assemblee con l’aria densa di fumo lui, la Marlboro sulle labbra, teneva banco. Arringava la platea come un tribuno con la sua faccia fiera, quasi convinto d’essere ancora un partigiano, sulle montagne. Era bello R., e le ragazze in Aula Magna lo seguivano affascinate. Gridava di un’imminente rivoluzione proletaria: e i figli della borghesia milanese erano orgogliosi di credersi antisistema. Mi affacciavo, R. concionava. Mi soffermavo sul suo profilo da giovane eroe – i Carbonari, mi dicevo, erano forse così. Ma non sentivo una parola vera, e me ne andavo. Lo invidiavo però: avrei voluto essere anch’io una combattente, ma, per cosa? La faccia di R. era per me la giovinezza che grida di rovesciare il mondo. Ho scoperto sul web che è diventato il Ceo di una grande multinazionale. R. con la bandiera rossa, il pugno alzato, ora in Bmw, con l’autista. Con un rumore di vetri infranti s’è rotto in me il Carbonaro. Un volontario di una Ong, un medico di Msf sarà diventato, mi dicevo. No: compagni, abbiamo scherzato. La bella faccia di R., nella scatola delle illusioni dei quindici anni. © riproduzione riservata
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