sabato 12 marzo 2005
Achi domanda ragione dei miei viaggi solitamente rispondo che so bene quel che fuggo, ma non quel che cerco. «Il viaggio è una specie di porta attraverso la quale si esce dalla realtà quasi per penetrare in un orizzonte inesplorato che sembra un sogno». Così nell'Ottocento lo scrittore francese Guy de Maupassant definiva l'esperienza universale del viaggio, vista come un ingresso nel mistero, nell'ignoto, nel "diverso". Noi oggi abbiamo, invece, rimandato a un'osservazione ancor più simbolica del grande pensatore cinquecentesco francese, Michel de Montaigne. Essa ben s'adatta al frenetico muoversi dell'uomo contemporaneo che ha a disposizione auto, treni e aerei per i suoi viaggi, i quali alla fine diventano una parabola della sua situazione esistenziale. Egli, infatti, è insoddisfatto della sua vita normale, spesso noiosa e priva di significato, e si affida al movimento, al mutamento di ambiente, alla varietà, alla novità. In realtà il suo non è un itinerario verso una meta, non è un pellegrinaggio verso un luogo santo, è solo un cambiare, un fuggire da dove si è collocati. Non si ha un approdo sicuro; e questa è la vicenda di una ricerca che non trova risposta: «so bene quel che fuggo, ma non quel che cerco», come diceva Montaigne. Anche perché viaggiando non si è disponibili a imparare, a interrogarsi, a mettersi in causa. Il nostro Guido Piovene, scrittore morto nel 1974, ricordava infatti che «viaggiare dovrebbe essere sempre un atto di umiltà».
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