Due rimorsi di coscienza di fine anno per ritrovare l'etica della letteratura
sabato 18 dicembre 2010
A fine anno ogni recensore ha i suoi rimorsi. Per quanto mi riguarda sono almeno venti i libri che non sono riuscito a recensire, a segnalare, a citare (a leggere!). Ci si può accorgere (a me succede) che non si è dato spazio ai libri più insoliti e importanti, perché è più difficile parlarne. Ne ricordo due in particolare. Conosco i loro autori e le loro capacità, ma non mi aspettavo (per distrazione) che sarebbero riusciti a tanto.
Il primo di questi libri è Riviera (Einaudi) di Giorgio Ficara, studioso e critico che per originalità di scrittura (e di qualunque argomento parli) «non lascia mai le cose come prima». Riviera, poi, è un libro che non si sa come definire. È un poema in prosa, un'autobiografia implicita, un saggio descrittivo e narrativo, un testo di erudizione lirica, un'indagine visionaria. È un esempio geniale di quella "scienza dei luoghi" che sogniamo di realizzare e che può continuare a sfuggirci per tutta la vita. Ficara, che vive fra Torino e Rapallo, è riuscito a rivelare e dominare letterariamente l'inconscio fisico della Liguria, la vertigine che connette superfici geografiche e profondità storica.
L'altro libro è Forma del vivere (il Mulino) di Amedeo Quondam, fondamentale libro di italianistica che ogni intellettuale dovrebbe leggere. Ubriachi di modernità e appassionati di moralisti francesi, abbiamo dimenticato la letteratura morale italiana, la nostra filosofia pratica e quella teoria delle virtù quotidiane che attraversa il nostro umanesimo e classicismo: da Petrarca fino a Vergerio, Pontano, Alberti, Castiglione, Guicciardini, Guazzo. Il libro di Quondam si apre con un rovesciamento fulminante: se Machiavelli ha liberato la politica dalla morale, si tratta ora di essere conseguenti liberando la morale dalla politica.
Dietro questi libri di Quondam e Ficara c'è Leopardi, mi pare: il più grande saggista italiano dell'Ottocento, classicista moderno e critico della modernità.
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