sabato 21 ottobre 2017
La domanda è di quelle semplici, apparentemente: «È troppo pensare di introdurre nel linguaggio della cooperazione internazionale la categoria dell'amore, declinata come gratuità, parità nel trattare, solidarietà, cultura del dono, fraternità, misericordia?». Già, è troppo? A porre l'interrogativo, come i nostri lettori (e non solo) sanno bene, è stato papa Francesco, nel discorso rivolto alla Fao lunedì scorso. Domanda semplice, ben più difficile la risposta. Ed è molto probabile che a qualcuno siano fischiate le orecchie, visto – come ha aggiunto lo stesso Francesco – che «in effetti, queste parole esprimono il contenuto pratico del termine “umanitario”, tanto in uso nell'attività internazionale».
Perché quella domanda, in realtà, sono più di vent'anni che è stata posta. Almeno dal 23 novembre del 1995, quando, proprio parlando alla Fao nel cinquantenario della sua fondazione, papa Wojtyla auspicò la promozione di «un nuovo senso di cooperazione internazionale», passando da una semplice «assistenza alimentare, spesso sfruttata per esercitare pressioni politiche», a un'idea di «sicurezza alimentare che considera la disponibilità di cibo non soltanto in relazione alle necessità della popolazione di un Paese, ma anche in rapporto alla capacità produttiva delle aree circostanti».
Tutto questo perché, come avrebbe ricordato Benedetto XVI nel messaggio per la giornata mondiale del migrante e del rifugiato del 2013, «prima ancora che il diritto a emigrare, va riaffermato il diritto a non emigrare, cioè a essere in condizione di rimanere nella propria terra, ripetendo con il beato Giovanni Paolo II che “diritto primario dell'uomo è di vivere nella propria patria: diritto che però diventa effettivo solo se si tengono costantemente sotto controllo i fattori che spingono all'emigrazione”».
Per questo, insomma, e per non correre il rischio che «la fame venga ritenuta come strutturale... per combattere e vincere la fame – spiegò Benedetto XVI sempre parlando alla Fao nel 2009 – è essenziale cominciare a ridefinire i concetti e i princìpi sin qui applicati nelle relazioni internazionali, così da rispondere all'interrogativo: cosa può orientare l'attenzione e la successiva condotta degli Stati verso i bisogni degli ultimi? La risposta non va ricercata nel profilo operativo della cooperazione, ma nei princìpi che devono ispirarla: solo in nome della comune appartenenza alla famiglia umana universale si può richiedere a ogni Popolo e quindi a ogni Paese di essere solidale... per favorire una vera condivisione fondata sull'amore».
Ed ecco che papa Bergoglio è tornato di nuovo a porre quella domanda. «È troppo pensare di... ?». Perché se il problema è «come fermare persone disposte a rischiare tutto, intere generazioni che possono scomparire perché mancano del pane quotidiano, o sono vittime di violenza o di mutamenti climatici», la risposta non sono «barriere fisiche, economiche, legislative, ideologiche»; a fermarle potrà essere «solo una coerente applicazione del principio di umanità. E invece diminuisce l'aiuto pubblico allo sviluppo e le Istituzioni multilaterali vengono limitate nella loro attività, mentre si ricorre ad accordi bilaterali che subordinano la cooperazione al rispetto di agende e di alleanze particolari o a una tranquillità momentanea».
E no, allora, non sarebbe troppo pensare di introdurre nel linguaggio della cooperazione internazionale la categoria dell'amore. E a quasi 25 anni dalla prima formulazione di questa domanda, sarebbe ora davvero di rispondere, perché mai come oggi è chiaro che «la gestione della mobilità umana richiede un'azione intergovernativa... condotta secondo le norme internazionali esistenti e permeata da amore e intelligenza».
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