D'Annunzio «uomo ammobiliato» e trappola per i critici paludati
sabato 24 ottobre 2009
Gabriele D'Annunzio è uno scrittore importante? Merita ancora la sua fama e lo spazio che gli dedicano le storie letterarie? È leggibile? Fin dove arriva la sua influenza? Troppe domande per una risposta in poche righe. Ma la mia tesi è semplice: più che alla letteratura D'Annunzio appartiene alla storia del costume e del gusto, più che uno scrittore è uno "stilista". Rappresenta un'epoca (dal 1890 al 1930) nei suoi lati peggiori e al più alto grado di teatralità. È un lampante, increscioso esempio dello snobismo estetico italiano, della mania della bella forma che diventa idea fissa e cattivo gusto.
È appena uscita un'edizione tascabile del Piacere (Giunti), il primo, eclatante romanzo di D'Annunzio, che aveva allora ventisei anni: un romanzo, diciamo così, d'amore, ma dove le bellezze di Roma e gli arredi, la vita squisita in ambienti squisiti e l'esibizione sensuale valgono più della psicologia. Ho letto l'introduzione di Matteo Marchesini per vedere che cosa pensa oggi un ottimo critico trentenne di quella star di primo Novecento. A differenza di molti accademici, vedo che Marchesini «non ci casca». Il suo ritratto di D'Annunzio è preciso e spietato: si parla di kitsch, si cita una formula di Benjamin: «uomo ammobiliato». L'autore del Piacere è visto come il profeta di quell'«immensa e velleitaria piccola borghesia» che è dilagata nel Novecento, a cui piacque il fascismo e che dagli anni Ottanta in poi ha fatto dell'Italia il paradiso (e l'inferno) della moda. Ma ai suoi tempi D'Annunzio ipnotizzò il pubblico. Critici come Debenedetti e Praz lo vivisezionarono smontando le sue scenografie. Ma perfino un grande filologo come Giorgio Pasquali arrivò a dire, accecato da non so cosa, che per capire l'intensità linguistica dei lirici greci si poteva pensare a D'Annunzio. Ci voleva un tedesco come Thomas Mann per dire di lui che «non conosce la solitudine, non gli vengono mai dubbi su se stesso, ignora l'ironia a proposito della gloria» e lo chiama «maestro di orge verbali» che «anela a celebrare le sue nozze con la moltitudine». Oggi
in Italia siamo davvero oltre D'Annunzio? Non credo.
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