domenica 3 giugno 2007
O Dio, nostro Dio, mi presento davanti a te come un mendicante. Ti supplico, non permettere che la malignità delle mie azioni copra il grido della mia preghiera. Sto in una prigione eretta coi miei difetti e coi miei peccati di omissione. Ti supplico,
cancella dalla mia anima queste scorie cattive, non lasciare che invadano il mio cuore. Può forse sembrare un po' provocatorio che oggi, nella festa così cristiana della Trinità, io sia ricorso a una preghiera musulmana: l'islam, infatti, nega la Trinità, anche se erroneamente confonde la terza persona divina con Maria. L'invocazione che ho scelto da una raccolta di Salmi sufi (ed. Icone 2004) riesce, però, a dimostrare che in tutta l'umanità c'è un anelito profondo e appassionato verso Dio e la sua gloria. A pregare con le parole sopra citate era Yumayd, un maestro del sufismo, corrente mistica musulmana, morto a Baghdad nel 911. Suggestivo è quel modo di presentarsi a Dio: «siamo tutti mendicanti», amava ripetere anche Lutero. Davanti al fulgore divino noi dovremmo scoprire la tenebra che è in noi; davanti alla sua purezza dovremmo svelare il nostro male; davanti alla sua eterna grandezza dovremmo confessare la nostra fragilità. E come si intuisce nelle invocazioni di Yumayd, alla fine non è la disperazione o lo scoraggiamento a impadronirsi di noi, bensì la certezza che la mano potente di Dio - che in Cristo decide persino di esserci accanto in una carne fragile come la nostra - può cancellare «le scorie cattive», abbattere le mura della prigione che abbiamo eretto con le nostre colpe. Sì, perché come scriveva Pascal, noi non ci dispereremo per i nostri peccati, perché «essi ci saranno rivelati nel momento stesso in cui ci saranno perdonati».
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: