venerdì 8 maggio 2020
Tra non molto saremo travolti da una massa di libri che parleranno di queste settimane di semi–clausura, servite a tanti non a occupare il tempo leggendo testi importanti, di ieri o di oggi e ragionandoci sopra o a pensare e a ripensarsi per non dover continuare a perdere tempo prezioso in un futuro che sarà molto diverso dal passato, ma invece a leggere affannosamente le considerazioni di vicini e di lontani e soprattutto ad aggiungerne affannosamente di proprie. Ha già cominciato (onore al primo) un frenetico torinese a scrivere nel bel mezzo dell’epidemia un libro sull’epidemia, un apripista che verrà seguito da decine e forse centinaia di imitatori. È persino probabile che anche gli scrittori e le scrittrici “minimalisti” (metto nel gruppo anche quelli/quelle che rubano alle memorie famigliari, vere o idealizzate, le storie per i loro libri, quelli che scrivono polizieschi prendendo ispirazione dai giornali o essendo essi stessi giornalisti, quelli/quelle che hanno un messaggio da diffondere a una umanità che avrebbe il dovere di ascoltarlo; è probabile che tutti costoro si trasformino – per rimanere in classifica – in scrittori massimalisti, o perfino apocalittici. Anzi, più che probabile è certo, e per quel che trapela dei programmi degli editori grandi e piccoli la corsa (la rincorsa) è certamente già avviata. E sarà doveroso ma sarà anche più faticoso che mai applicarsi a distinguere tra i bravi e i meno bravi, tra gli esordienti di talento e i gregari d’imitazione, come è stato a suo tempo per i minimalisti. Quello che è certo che siamo già pronti, quasi tutti (il quasi indica la persistenza possibile anche domani di una minoranza, magari sempre più tale, che si ostina a non mentire e mentirsi) a inventarci nuove scappatoie per non affrontare la realtà, per chiuderci nel nostro piccolo facsimile di realtà però discettando e sproloquiando sulla realtà più vasta e generale, più “globale” e più “epocale”, da dilettanti assoluti come
siamo e ci accontentiamo di essere. Volontariamente impotenti ad agire, a reagire nei fatti, contenti di sfogare le nostre frustrazioni e la nostra impotenza, nel parlar di destini generali, di massimi sistemi. Di fatto, c’è da temere che la nuova realtà finisca per accentuare una linea di tendenza che pochi veri saggisti e narratori e poeti hanno saputo affrontare in passato, quella scavata con la massima preveggenza (e la massima sofferenza) da uno scrittore di cui si parlò anche troppo tanto tempo addietro, una moda come un’altra, e di cui si parla molto poco oggi, quando sarebbe più istruttivo il farlo, Philip K. Dick, coinvolto scrutatore
della “macchina della paranoia” nella società più d’avanguardia di tutte, quella degli Usa. Quello di cui Dick parlava ci sembrava un minaccioso futuro che era già, in nuce e lui lo sapeva, un minaccioso presente coperto di orpelli. E con l’opera di Dick sarebbe utile forse rileggere quella di una sorta di Dick europeo, più razionale di lui, Houellebecq. Ma di narratori che siano contemporaneamente grandi sociologi e grandi visionari non ce ne sono in giro molti, e nessuno, purtroppo, oggi in Italia.
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