mercoledì 30 novembre 2016
Welfare, la lezione svedese per far rifiorire la natalità
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Lo sviluppo in fiore degli anni migliori del nostro Paese si è arrestato alla fine degli anni 80, e poi dalla metà degli anni ’90 ha iniziato a deperire: prima ha perso i suoi petali e poi i suoi germogli. Potrebbe riprendere a fiorire, se protetto e nutrito. I germogli dei nuovi nati nel 2015, secondo i dati Istat definitivi, sono diminuiti, per la prima volta dall’Unità d’Italia, sotto quota 500 mila, nonostante il crescente contributo dell’immigrazione. La diminuzione è continuata nel 2016, secondo i primi dati provvisori. Per Paesi a bassa natalità, come l’Italia e la Germania, la dinamica della natalità è diventata una misura del benessere del Paese, molto più attendibile del Pil: in Italia il crollo della natalità dal 2008 è un segnale inequivocabile della stagnazione economica da cui non si riesce a uscire, così come, all’opposto, in Germania il numero di nati per donna è stato nel 2015 il più elevato degli ultimi 33 anni, e, dal 2006, l’aumento costante del numero di nuovi nati si è accompagnato alla piena occupazione e la stabile crescita economica del paese.

L'aumento di nuovi nati in Germania nel 2015 è tuttavia ancora lontano dal livello del 1990, perché nel frattempo è diminuita la generazione di giovani donne e uomini: 6 milioni di giovani 'petali' fra i 20 e i 39 anni – la generazione 'core' sul piano economico e sociale – sono 'scomparsi' fra il 1993 il 2015. Questo vuoto è stato colmato dall’immigrazione, che in Germania ha trovato opportunità favorevoli di occupazione. In Italia il numero di giovani 'scomparsi' fra il 1995 e il 2015 è stato analogamente elevato e pari a 4 milioni, essendo le donne in numero un poco maggiore degli uomini. La crisi del 2008 ha bruscamente interrotto una debole ripresa della natalità, inclusiva del crescente contributo dei nuovi nati da immigrati: negli ultimi anni, fra le famiglie immigrate, il numero di nuovi nati si è bruscamente ridotto sotto i 2 figli per donna, condividendo le analoghe difficoltà economiche delle famiglie italiane. In Italia, il numero di figli per donna è sceso a 1,35 nel 2015, poco sopra il livello minimo di 1,19 del 1995, quando tuttavia il numero di donne della generazione 'core' era più elevato di 2 milioni. La conseguenza è che, con la crisi economica l’Italia è entrata in un nuovo regime di basso numero di nati, anche se il tasso di nuovi nati per donna dovesse di poco risalire: la futura generazione 'core' – 20-39 anni – sta ulteriormente diminuendo, a meno di un aumento del numero d’immigrati di prima generazione.

Le ragioni della crisi demografica della popolazione giovane e dei nuovi nati ha molteplici cause, che la crisi economica riassume in gran parte: il nuovo regime di basso numero di nati, oltre che di nati per donna, ha come causa centrale il rapido deterioramento delle prospettive sul proprio futuro delle giovani coppie, per le quali è sempre più difficile concretizzare i propri piani di vita, nonché la crescente difficoltà delle coppie con figli giovani più grandi ad offrire loro le opportunità di istruzione e crescita culturale oggi necessarie. Dal 2008 si è infatti drasticamente ridotto il tenore di vita delle famiglie. L’aumento della povertà assoluta in Italia ha colpito in particolare i nuclei con figli: il consumo medio annuo, in termini reali, è diminuito sensibilmente dal 2007 e in misura crescente con l’aumentare del numero di figli. Il vincolo economico alla scelta di avere figli, o più di un figlio, è sempre più stringente, perché la crisi economica ha rapidamente prosciugato risparmi e certezze di una quota rilevante di ceto medio. Scriveva Tocqueville quasi due secoli fa che «quando una rivoluzione scoppia, si scoprirà, quasi sempre, che la questione della disuguaglianza era al centro» e per questo egli individua nella classe media un fattore di stabilità sociale, perché «gli uomini la cui esistenza confortevole è ugualmente distante dalla ricchezza e dalla povertà attribuiscono un immenso valore alla loro proprietà: essendo ancora molto vicini alla povertà, conoscono in dettaglio le sue privazioni e ne hanno timore».

Ci si domanda se e come sia possibile fermare la deriva sociale dell’Italia e come questa sia legata alla situazione economia: il caso della Svezia può dare qualche indicazione. La recessione economica svedese degli anni 90 è simile, su scala ridotta, alla più vasta crisi europea dal 2010 in poi: in Svezia la disoccupazione aumentò di molto – in particolare per i giovani, gli immigrati e le famiglie con un solo genitore – mentre tutti i programmi sociali furono ridimensionati o tagliati. La natalità, che era di 2,1 figli per donna nel 1991, crollò a 1,5 nel 1999: nel decennio successivo il tasso di natalità lentamente riprese, fino a raggiungere nuovamente il livello di 2 nel 2011. Un lungo ciclo completo di circa 20 anni, che ha avuto il suo punto di svolta nel momento in cui la Svezia ha cambiamento radicalmente la sua politica economica, e si è riproposta come un paese 'amico' della famiglia, con una profonda trasformazione e miglioramento del sistema di welfare.

Tra i punti di forza del modello svedese si possono segnalare, a titolo di esempio: congedo di maternità/paternità di 480 giorni pagati a salario normale; assegno mensile di 100 euro per ogni figlio fino ai 16 anni, più assegni alle famiglie numerose; scuola gratuita, pasti compresi!, fino ai 19 anni; permessi retribuiti per le malattie dei figli sotto i 12 anni e fino a 120 giorni in un anno; trasporti pubblici gratuiti con i figli in carrozzina; aree pubbliche baby fiendly... La Svezia, pur con le sue distanze culturali rispetto all’Italia è un esempio del fatto che il ciclo negativo può essere interrotto, ricostruendo un Paese economicamente forte, perché capace di ascoltare e rispondere alla domanda di certezze sul futuro dei suoi cittadini, con un efficace sistema di welfare che ha favorito, anziché bloccato il processo innovativo: oggi la Svezia è un paese paragonabile alla Germania, come forza economica e capacità di innovazione.

Un problema centrale di ogni società è il rapporto fra meriti e bisogni: il mercato può essere il meccanismo che remunera i meriti, e solo in modo subordinato i bisogni, mentre lo Stato dovrebbe essere un centrale meccanismo di risposta al bisogno. Vi sono bisogni senza merito, come nel caso dei molto giovani o dei più deboli; o bisogni legittimati da meriti passati, come nel caso dei pensionati, che hanno a loro volta contribuito nel corso della loro vita lavorativa. La distribuzione primaria del reddito dovrebbe rispondere a criteri di merito, mentre la distribuzione secondaria del reddito, attraverso il meccanismo redistributivo d’imposte e spesa pubblica, dovrebbe rispondere alle ragioni del bisogno delle persone e lo Stato dovrebbe avere il ruolo di garante, sia della libertà dal bisogno sia della tutela della sfera di libertà privata. Ciò non sempre accade, e le riduzioni di spesa pubblica sono spesso, in realtà, riduzione del reddito disponibile delle famiglie.

I sistemi di welfare, pur innovati, sono centrali per far rifiorire un Paese un po’ appassito, come l’Italia. In particolare è importante la loro stabilità, e dove possibile universalità: laddove esistono condizioni per l’accesso ai servizi è cruciale che i criteri utilizzati diventino meccanismi per un’inclusione sempre più larga, piuttosto che di esclusione, come attualmente accade. È necessario dare un ruolo centrale al welfare in natura, come nel caso della sanità e dell’istruzione, perché l’esperienza di molti Paesi, come la Svezia, dimostra che i cittadini sono molto più disponibili a contribuire fiscalmente se vi è trasparenza sull’utilizzo delle risorse e la loro destinazione. È possibile far rifiorire l’Italia, senza contrapposizioni fra efficienza e giustizia sociale: ma occorre fare un primo passo deciso indicando quale meta si intende raggiungere.

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