giovedì 24 agosto 2017
Più che distruggere posti, la tecnologia trasformerà il modo di lavorare. Servono azioni precise di riqualificazione e formazione continua
Nell'era dei robot, contano creatività e adattamento
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Con un certo ritardo rispetto ad altri Paesi europei il tema di Industria 4.0 è esploso anche in Italia. Come ogni moda ha presto riempito convegni e pagine dei giornali. L’enfasi è stata stata posta su macchinari e tecnologie di nuova generazione. Solo più recentemente, grazie a una intuizione del ministro Calenda, si è iniziato ad affrontare il tema della digitalizzazione con uno sguardo più ampio mettendo al centro il lavoro e le competenze abilitanti. Si tratta di un passaggio fondamentale almeno per chi crede che le tecnologie siano al servizio della persona e non il contrario. Non possiamo infatti avviare processi incontrollati che potrebbero presto bruciare centinaia di migliaia di posto di lavoro. Centrale, piuttosto, è lo sforzo sui nuovi mestieri e le professionalità emergenti, sia per accompagnare le scelte formative ed educative dei nostri giovani, sia per accompagnare un inevitabile e complesso processo di alfabetizzazione digitale degli adulti che ancora non è iniziato. Anche per questo il campo di confronto è ancora dominato, da noi più che in altri Paesi, da una questione di cui si discute da almeno 400 anni: la tecnologia farà scomparire il lavoro?

Fare previsioni oggi è impossibile, anzi è controproducente. Questo perché è molto facile intuire quali saranno i posti di lavoro che scompariranno nel breve e nel lungo periodo, mentre molto più complesso è immaginare quali nuove professioni nasceranno nello stesso arco di tempo. Questo non significa rispondere agli allarmi apocalittici con un altrettanto esagerato ottimismo cieco, quanto piuttosto riconoscere che non siamo di fronte a un fenomeno caratterizzato unicamente dalla distruzione, quanto soprattutto dalla trasformazione. In effetti la sfida oggi dovrebbe essere quella di passare dall’affermazione «la tecnologia distrugge lavoro» a «la tecnologia distrugge lavori, trasformando il lavoro». Che le professioni siano state rese obsolete dall’avvento di tecnologie che, in particolare relativamente all’utilizzo della forza fisica, potevano sostituire con strumenti meccanici il lavoro umano non è certo una novità. Così come non è una novità il calo della percentuale di lavoratori occupati nel settore industriale, costante in Italia dal 1980 e già dagli anni Cinquanta negli Usa. Recentemente uno studio Ocse ha mostrato come, a differenza di altri studi che prevedevano l’elevato rischio di scomparsa per la metà delle professioni attuali, il rischio di totale eliminazione riguardi il 9% dei lavori mentre percentuali molto maggiori (circa il 35%) sarebbero quelle che andranno incontro a una profonda trasformazione derivante dall’automazione di determinate mansioni al loro interno.

Non sono poche le evidenze empiriche sul passato né le previsioni sul futuro disponibili che mostrano come la tendenza sia stata e probabilmente sarà quella di una trasformazione e una sostituzione. La differenza con il passato si dovrebbe riscontrare in due elementi: da un lato tempi di sostituzione molto più rapidi, dall’altro la potenzialità di sostituire attività un tempo considerate un porto sicuro in quanto nonroutinarie e a forte valore aggiunto intellettuale. A fronte di questo scenario probabile il concetto stesso di Industria 4.0 acquista un valore particolare. Infatti, sebbene nato come strategia di politica industriale tedesca, questo ha il merito di aver inquadrato il tema della digitalizzazione dal punto di vista dei cambiamenti strutturali dei modelli di business, delle logiche di produzione e di consumo, e quindi delle modalità di lavoro. Inteso all’interno di un contesto più generale il fenomeno tecnologico innanzitutto acquista il proprio spazio all’interno di una complessità di fattori che spesso vengono dimenticati, come quello del contesto internazionale e quello demografico. Inoltre risulta più semplice abbattere muri e confini propri di un modello di impresa novecentesco che incideva non poco nel pensare e organizzare il lavoro.

Infatti il lavoro in questo contesto sembra acquistare un valore differente a seconda dei modelli produttivi che si sviluppano. La digitalizzazione dei processi accresce, come ormai avviene dagli anni Settanta, la componente intellettuale della prestazione e con essa qualifica in tal senso le professionalità richieste. L’evoluzione degli occupati in Italia mostra come nel corso degli ultimi quindici anni siano le professioni intellettuali, più ancora di quelle tecniche specializzate, ad essere cresciute parallelamente ad una diminuzione del numero degli operai. Questo richiede rapide e precise azioni di riqualificazione e formazione continua per poter adattare la forza lavoro ai nuovi processi. In questa prospettiva vanno completamente ripensate le politiche attive che non saranno più, come nel secolo scorso, da posto a posto ma richiederanno complessi processi di transizione verso nuovi mestieri e occupazioni. E il faro a cui guardare sarà sempre più la persona del lavoratore, sia all’interno dei processi produttivi sia nel mercato del lavoro. La vera scommessa, radicale nei suoi rischi e nelle sue opportunità, è quella che corre sul filo della persona, o il suo assorbimento in logiche tecnologiche autonome e disumanizzanti o un vero e proprio rinascimento possibile proprio grazie alla tecnologia e alla nuova complessità dei processi, che può mettere al centro il lavoratore.

E proprio su questo aspetto emerge una delle caratteristiche più interessanti della trasformazione contemporanea su cui l’Italia segna da tempo uno storico ritardo non solo culturale ma anche progettuale ed organizzativo non colmato dal Jobs Act. Se infatti le tecnologie si evolvono molto rapidamente, con esse aumenta il rischio di obsolescenza di competenze fino a poco tempo prima fondamentali. Ciò fa sì che una eccessiva attenzione sull’iperspecializzazione della forza lavoro, in particolare di quella in entrata che si riflette sui contenuti della didattica nei percorsi formativi, rischi di generare un effetto negativo. Sono invece più importanti oggi la capacità di adattamento e di saper comprendere e imparare i nuovi processi che si evolvono, piuttosto che una conoscenza dettagliata di strumenti che in pochi anni scompaiono. E proprio le preferenze delle imprese e le indagini scientifiche mostrano come l’esigenza sia quella di soggetti solidi e maturi, piuttosto che solamente specialisti. La dimensione della persona rientra in gioco per due aspetti: per un verso l’impresa non è più il lungo di esecuzione ma anche di creazione di valore e condivisione di sapere; per l’altro verso il lavoratore non è più solo forza fisica ed esecuzione mentale di processi standard ma conta la sua intera personalità, le sue vocazioni e sempre più anche le sue passioni.

Tutto ciò rende necessario un ripensamento dei percorsi di formazione, sia nel metodo che nel contenuto. Un generico appello agli investimenti in formazione, di per sé ragionevole e urgente, non basta più. Occorre evolvere l’idea stessa della formazione: non solo trasferimento di nozioni ma trasferimento di esperienze, non solo formazione di professionalità ma formazione di professionisti. Questa è la sfida principale del futuro, che non si risolve con qualche corso o con la delega di queste attività ai formatori di professione. Per questo tutti gli attori sono chiamati a collaborare e per questo il ruolo delle relazioni industriali nel contesto di Industria 4.0 sarà fondamentale e completamente rinnovato. Sindacati e associazioni datoriali, se vorranno essere utili per i loro membri, dovranno individuare modalità per ripensare alla costruzione della maturità di lavoratori e imprese, partendo in primo luogo dalla valorizzazione di quello che già c’è, spesso sconosciuto se considerato come una massa indistinta e non come una soggettività sempre diversa e ricca di originalità sulla quale costruire.

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