mercoledì 24 luglio 2013
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Caro direttore,
quest’anno ricorrono, dunque, i settant’anni del Convegno di Camaldoli, dove un gruppo di intellettuali cattolici stilano un programma per la rinascita del Paese conosciuto come il «Codice di Camaldoli». Avvenire ne ha già scritto. Ma non inutile ricordare che dal 18 al 24 luglio del 1943 nell’antico Monastero casentinese con l’organizzatore dell’iniziativa, Vittorino Veronese, si ritrovano Giorgio La Pira, Guido Gonella, Sergio Paronetto, Ezio Vanoni, Mario Ferrari Aggradi, Giuseppe Capograssi, Dino Del Bo, Antonio Boggiano Pico, Vittore Branca, Ludovico Montini, Angela Gotelli, Gesualdo Nosengo, Orio Giacchi, Franco Feroldi, monsignor Adriano Bernareggi, il gesuita Padre Ulpiano Lopez, monsignor Pavan, monsignor Costa, monsignor Guano e monsignor Colombo. Il convegno finisce in anticipo a causa del bombardamento di Roma del 19 luglio. I partecipanti tornano a casa ma continuano a lavorare ai testi prodotti con l’aiuto di altri amici come Paolo Emilio Taviani e Pasquale Saraceno fino al 1945 quando, a guerra finita, viene pubblicato il volume "Per la comunità cristiana. Princìpi dell’ordinamento sociale a cura di un Gruppo di studiosi amici di Camaldoli". È, appunto, il "Codice di Camaldoli", che costituirà la base programmatica della Democrazia Cristiana.
Le linee portanti del documento sono l’affermazione della dignità della persona e del suo primato sullo Stato; il riconoscimento della laicità dello Stato; l’accentuazione del ruolo della politica come garante della giustizia sociale; la sottolineatura della funzione sociale della proprietà. Punto centrale della dottrina economica del Codice è la teoria, elaborata da Vanoni, dell’attività finanziaria pubblica che, seguendo il criterio della giustizia sociale, deve provvedere all’equa ripartizione di oneri e benefici del prelievo fiscale.
Il ruolo svolto dai cattolici nella vita pubblica italiana, dall’immediato dopoguerra, è stato costruito su quelle basi. Lontano dai riflettori. Tanto che alla fine della guerra, quella dei cattolici sembra quasi un’apparizione improvvisa sulla scena politica. Imprevista dalle classi dirigenti dell’epoca, convinte che il cattolicesimo italiano fosse destinato a giocare un ruolo solo nella sfera religiosa.
Quasi come oggi, con i cattolici riconosciuti e riconoscibili solo nella difesa dei valori "non negoziabili" con grande soddisfazione delle componenti liberali e socialiste che invece riescono a orientare le politiche economiche, sociali e costituzionali creando le condizioni per una difficoltosa se non impossibile affermazione dei princìpi morali sottostanti a quegli stessi valori.
Eppure, oggi come allora, in una fase di grave crisi morale, politica ed economica, il cattolicesimo italiano dovrebbe dare un contributo originale per la "ricostruzione del Paese" innanzitutto sul piano dell’elaborazione culturale e della formazione di nuove classi dirigenti, ma anche su quello pre-politico dell’organizzazione del consenso intorno ad idee nuove finalizzate a superare la grave recessione economica e la crisi della rappresentanza politica che genera sfiducia nei confronti delle istituzioni.
Tale impegno oggi è reso ancora più urgente dalla fragilità della nostra democrazia. E non si può pensare di affrontarlo in ordine sparso e con vacui personalismi. Immaginare che i cattolici possano efficacemente inserirsi nelle dinamiche politiche, economiche e dell’informazione, dominate da ristrette oligarchie, senza un disegno strategico e strumenti adeguati è una "pia illusione" e un’abdicazione al dovere di responsabilità verso i fratelli che assimilerebbe i nostri comportamenti alla risposta di Caino a Dio.
Francesco Gagliardi
direttore di Eptaforum
 
Sono d’accordo sui diversi passaggi cruciali di questo ragionamento e certamente sul suo spirito complessivo, caro direttore Gagliardi. E sono contento di ospitarlo e continuarlo sulle nostre pagine proprio oggi, 24 luglio, a settant’anni esatti dalla conclusione del Convegno di Camaldoli. Devo dire, però, che mi suona strano – alla luce dello sguardo attento che attraverso le pagine di "Avvenire" abbiamo esercitato, in questi ultimi due decenni, sulle presenze e sulle assenze, sulle consapevolezze e sulle incapacità di comprensione e di azione, sulla significatività efficace e sulle irrilevanze concrete dei credenti laicamente impegnati nella sfera pubblica – sentir dire che «i cattolici» sono stati «riconosciuti e riconoscibili solo nella difesa dei valori "non negoziabili"». Non capisco quel "solo", lo ammetto. E soprattutto vorrei proprio che fosse stato così! Purtroppo è andata in un’altra maniera, e io stesso l’ho scritto più volte. Certo, qualcosa di buono – ogni tanto, e senza convinta e bipartisan continuità – s’è pur fatto, ma abbiamo dovuto registrare più drammatiche miopie e rischiose deregolazioni sulle questioni della vita e della famiglia fondata sul matrimonio e per l’affermazione in campo educativo e non solo di un’idea di "pubblico" che non sia solo sinonimo di "statale". Ci siamo trovati e a raccontare (e qualche volta a salutare con sollievo) più arroccamenti difensivi che iniziative in campo aperto per valorizzare quei beni "non negoziabili" che in realtà sono "beni comuni" ovvero patrimonio di tutti , e che invece sono anche stati usati come bandiere e linee di demarcazione per spaccare comunità civile e coscienze personali. Proprio come lei, caro direttore, e gli amici di Eptaforum (luogo d’incontro e laboratorio di idee all’insegna del "personalismo" cristiano in dialogo con ogni altro autentico umanesimo) sono infatti ben conscio di ciò che la Chiesa – e con speciale intensità, da presidente della Cei, il cardinale Angelo Bagnasco – ci ha ricordato a più riprese nel tempo duro e promettente di grande crisi e di necessaria ricostruzione di un sensato ben-essere e di una necessaria equità che stiamo vivendo: l’etica sociale è fondata sull’etica della vita (quella, appunto, basata sui grandi princìpi irrinunciabili, cioè "non commerciabili" sia sul bancone sia – sregolatamente – fuori dal bancone del mercato capitalistico globale). L’etica della vita è base essenziale, nel senso più pieno: senza di essa, la "città dell’uomo" non ha fondamenta. Senza mettere – proprio come nel Codice di Camaldoli – al posto giusto l’uomo e la donna, la loro capacità di trasmettere e formare la vita secondo una legge di amore, di libertà e di responsabilità (che non può essere in alcun modo surrogata dalla legge dei desideri, dei laboratori e dei commerci: anche di persone, anche di corpi e di parti di corpo, anche di figli…), niente di umano nelle società umane alla fine si salva, ma tutto viene posto in discussione e diventa pratica ostentata eppure indicibile col suo vero nome: la riduzione della persona a "prodotto". Un lucido disegno di potenza a questo punta, dissimulando e travestendo persino di libertà un così disumanizzante percorso, altri seguono e inseguono più o meno inconsapevolmente, più o meno avvertiti della complessità di una trama suggestiva e pericolosa, ma alla fin fine semplice e ferrea come una catena. Ha ragione, caro amico, c’è da far aprire gli occhi e da fare, per dimostrare che un’altra e alta civiltà è ancora e sempre possibile. Con lo stesso spirito e – perché no? – il metodo di Camaldoli, con la stessa saldezza nella speranza di cui dobbiamo saper dare ragione.
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