martedì 1 luglio 2014
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Caro direttore,
mia moglie è affetta da adenocarcinoma del polmone ed è in cura presso il reparto oncologico dell’ospedale Sant’Andrea di Roma. In una relazione di nove pagine, a firma del primario del reparto, si afferma che «stante le attuali condizioni cliniche della paziente l’unica opzione terapeutica idonea è rappresentata dall’utilizzo del farmaco Crizotinib 250 mg». Il farmaco, del costo di 5.900 euro a scatola, pur essendo essenziale alla sopravvivenza di mia moglie, non è stato tuttavia dispensato dall’ospedale, e nemmeno dal servizio farmaceutico della Asl di appartenenza perché ancora in fase di sperimentazione per il tumore di mia moglie, anche se già somministrato per altre forme tumorali. Insomma, si tratterebbe di impiegarlo offlabel, come peraltro previsto da un decreto legge passato in Senato lo scorso 14 maggio. Non a caso, a seguito della richiesta di prescrizione del Crizotinib, l’Asl comunica che «non rientra nelle competenze o nella discrezionalità del direttore del Dipartimento Farmaceutico erogare farmaci per indicazioni diverse da quelle previste dalle specifiche normative[...]». La richiesta, consegnata a mano il 29 aprile scorso, ha avuto risposta solo il 21 di maggio. Ora, in una paziente neoplastica è essenziale che la cura prescritta venga effettuata nel più breve lasso di tempo possibile e già venti giorni di attesa per ricevere una risposta sono inaccettabili. Che si tratti di interpretazioni erronee di norme, o di inadeguatezza delle stesse a preservare la vita di un paziente, certo è che privi di cure si muore, male. A parere di chi scrive, in caso di reati compiuti a danno del Servizio sanitario nazionale e dei suoi utenti, con atti, omissioni e valutazioni arbitrarie, andrebbe contestato il reato di tentato omicidio, con l’aggravante della crudeltà.
Gaetano Minasi Ladispoli (Roma)
La denuncia contenuta nella sua lettera, gentile signor Minasi, è davvero impressionante. Prendo per buono ciò che mi scrive, anche perché posso testimoniare di aver assistito, qualche anno fa, a qualcosa di simile sulla pelle di una persona cara colpita da un altro tipo di malattia oncologica (dico "simile" perché in quel caso, dopo qualche resistenza e un palleggio di competenze tra due diverse strutture sanitarie, il farmaco alla fine venne assicurato). Capisco anche la ragione dei toni molto duri e forti a cui fa ricorso, È difficile, infatti, non essere colpiti e non restare sconcertati dalla vicenda che purtroppo sua moglie sta vivendo. Sembra impossibile che in Italia, oggi, un primario ospedaliero dichiari indispensabile e prescriva un farmaco che però né il suo ospedale, quello dove la paziente è in cura, né l’Asl competente intendono dispensare. Tutte secondo le regole? Pare di sì. La mia collega Viviana Daloiso ha verificato che il farmaco di cui stiamo parlando è ancora oggetto di studi sperimentali e, dunque, i singoli istituti di cura possono decidere se garantirne o meno la somministrazione. Ma credo proprio che non sia così strampalato chiedere alle nostre strutture sanitarie di mettersi d’accordo con se stesse – non attuando pratiche contrastanti con la valutazione medica sulla miglior cura possibile – e di rispettare, anche così, i malati. Mi auguro, con lei e con sua moglie, che questa storia abbia un esito positivo. E lo auguro a tutti coloro che si ritrovano – so bene che non sono pochi – in condizioni paragonabili a quella che la sua famiglia sta sperimentando.
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