martedì 7 febbraio 2012
COMMENTA E CONDIVIDI
​I colori Benetton stanno per lasciare Piazza Affari. Dopo l’addio nel 2007 alla passerella di New York, la famiglia di Ponzano Veneto ha deciso di ritirare il gruppo anche da quel listino milanese in cui iniziò a sfilare nel lontano 1986. In gergo si chiama "delisting". Brutto segno per una Borsa italiana sempre più magra e grigia. Ma soprattutto, a voler guardare più a fondo, è la pessima conferma di una mutazione genetica che sta investendo la finanza e in particolare la funzione dei mercati finanziari come volano naturale per la crescita delle aziende. A colpire, infatti, sono soprattutto le motivazioni che hanno suggerito ai Benetton di abbandonare la Borsa. Il gruppo dell’abbigliamento made in Italy ha bisogno di riposizionarsi sui mercati globali. Di agganciare la poderosa crescita indiana e cinese, di rintuzzare la concorrenza sempre più agguerrita di aziende dinamiche e veloci come la spagnola Zara o la svedese H&M. Per farlo servono capitali. E quei capitali che un quarto di secolo fa, all’epoca del decollo, i Benetton avevano trovato in Borsa, ora devono cercarli altrove. Probabilmente in banca. Perché il mercato – ecco il ragionamento sotteso alla scelta – è ormai preda di azionisti attenti solo ai numeri del breve periodo e non ai progetti di lungo respiro. Peccato che dentro a quel mercato ci siano anche tanti "piccoli azionisti", non certo speculatori, che si ritroveranno solo con un modesto riconoscimento per il loro investimento e la fiducia riposta nell’azienda. I pesci grossi – hedge funds, banche d’affari, grandi investitori – non hanno tempo da perdere: vogliono risultati subito e per questo puniscono un titolo che pur continuando a generare utili, seppure a un ritmo inferiore rispetto ai tempi d’oro, capitalizza oggi meno del valore dei suoi immobili. Le "mura" dell’azienda, cioè, valgono per la Borsa più dell’azienda stessa con la creatività dei suoi stilisti e i maglioni colorati. Un paradosso. Soprattutto per un gruppo che, superando i confini nazionali, era riuscito a vincere la prima sfida della globalizzazione economica, quella legata allo spazio. Deve invece soccombere a questa nuova fase della finanza globalizzata in cui non sono più gli spazi a dilatarsi, ma i tempi a restringersi in una sorta di teoria della relatività dagli esiti rovesciati. A dominare e snaturare l’originaria vocazione delle Borse al servizio dell’economia reale sono infatti le cosiddette "operazioni ad altissima frequenza": acquisti e vendite alla velocità della luce su azioni e derivati hanno superato in quantità gli investimenti a lungo termine del buon vecchio "cassettista", il piccolo risparmiatore o il grande Warren Buffet, che per scegliere dove mettere i suoi soldi considerava la crescita organica del fatturato e degli utili di un’azienda. L’economia finanziaria ha viaggiato negli ultimi anni a velocità doppia rispetto a quella reale. Oggi vale quasi 900mila miliardi di dollari. In larga parte sono strumenti speculativi e non semplici titoli azionari come Benetton, Fiat o Ibm. Un terzo degli scambi, poi, non viene effettuato da operatori in carne e ossa che studiano le potenzialità di un’impresa, le strategie dei suoi manager, la capacità di innovare o i piani per espandersi e magari creare posti di lavoro: la fetta più grossa è appannaggio proprio degli speciali algoritmi che effettuano operazioni velocissime, decine al minuto, non appena scatta qualche debolissimo segnale di mercato, senza considerare minimamente quel che accade nell’economia reale. Al posto dei gestori e degli analisti ci sono in pratica dei robot assolutamente impermeabili a ciò che avviene al di fuori dei circuiti elettronici. Dietro l’addio di Benetton a Piazza Affari s’intuisce dunque l’amara consapevolezza che la Borsa non è più quel posto in cui le aziende sono valutate, premiate o punite per quello che sono o fanno. E questa logica, lo si è visto nella recente crisi del debito, ha investito pure i mercati obbligazionari. Poco importa alla speculazione ad alta frequenza se per risanare i conti di un Paese ci vogliono anni: i mercati vivono "al secondo". Il "delisting" è in qualche modo figlio di quell’ossessione per lo spread che in Italia abbiamo conosciuto negli ultimi mesi. E viceversa. Entrambi, in ogni caso, sono il frutto avvelenato di un mercato che, dopo lo "spazio", ha finito per distorcere la stessa percezione del tempo.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: