Salviamo lo studente Zaki col passo della diplomazia
domenica 16 febbraio 2020

È comprensibile, e quasi perfino naturale, che l’arresto di Patrick George Zaki – lo studente egiziano copto dell’Università di Bologna – nel nostro Paese abbia sparso nuovo sale sulla ferita mai rimarginata del caso Regeni, una delle vicende più dolorose e brutali che ha terremotato le relazioni fra Roma e il Cairo e che ancora oggi aspetta giustizia.

Ma la vicenda di questo giovane imprigionato e forse torturato dalla polizia egiziana è in verità profondamente diverso: Zaki non è italiano e su di lui pendeva un mandato di cattura della magistratura egiziana. Nei confronti della quale noi possiamo fare ben poco. Certo, le accuse a lui rivolte raccontano molto delle condizioni in cui versa l’Egitto oggi: incitamento a proteste non autorizzate, pubblicazione di notizie false allo scopo di disturbare la pace sociale e istigazione al rovesciamento del governo, questi i motivi dell’arresto. Insomma, si tratta di un pericoloso sedizioso per il regime del presidente al-Sisi, mentre ai nostri occhi è un attivista per i diritti civili dei cittadini.

Soprattutto, questa incarcerazione illumina la sinistra verità di un presidente che si fa paladino del popolo contro 'i terroristi', contro il fanatismo islamista, che dichiara di voler proteggere la minoranza cristiana copta, ma che ha riempito le prigioni di oppositori, attivisti, presunti jihadisti. Sessantamila persone arrestate, più di 2.500 condannate a morte dall’inizio della sua presidenza dopo il colpo di mano per destituire il presidente islamista Mohamed Morsi, lasciato morire di diabete in un carcere lo scorso anno.

Un uso sistematico della tortura e della carcerazione preventiva; minacce e chiusure forzate delle poche voci di opposizione... nemmeno negli anni più cupi del regime di Hosni Mubarak vi era nel Paese un clima di tale repressione e di paura. Forze militari e polizia godono di una totale impunità per i loro abusi e le recenti modifiche costituzionali ne hanno rafforzato ulteriormente il potere, mentre il presidente si arrocca sempre più nei gangli vitali del sistema, attorniato da familiari e fedelissimi. Una posizione di forza che cela forse una debolezza politica nel mediolungo termine, in un Paese dagli equilibri complessi come l’Egitto. La scommessa di al-Sisi è che la crescita economica (superiore al 5%) – grazie anche allo sfruttamento dei nuovi giganteschi giacimenti di gas naturale off-shore e agli aiuti esteri – e la centralità geopolitica gli permettano di irridere le contestazioni internazionali sul mancato rispetto dei diritti umani.

Da questo punto di vista, niente di nuovo in Medio Oriente: la storia contemporanea della regione è piena di dittatori che si credevano insostituibili. Eppure, molti di essi sono finiti deposti, o peggio. Nel caso specifico dello sfortunato Patrick Zaki influisce anche il fatto che le proteste ufficiali, e le dichiarazioni venute dall’Italia e dal Parlamento europeo, rischiano di essere controproducenti, dato che le veline governative le hanno già bollate come indebite interferenze occidentali negli affari interni dell’Egitto. Lo studente è egiziano, si dice, non italiano.

È allora opportuno calibrare al meglio l’azione di difesa. Non fare cadere il silenzio sulla vicenda, perché dobbiamo far capire al Cairo che deve muoversi con prudenza e che i nostri occhi sono vigili, ma evitare gesti plateali o minacce che spingano il sistema di potere a reagire con una prova di forza. Questi sono i momenti in cui la diplomazia serve, soprattutto se discreta e silenziosa. Senza sbandierare vittorie della libertà se verrà liberato e senza cercare 'photo opportunity' di politici o di movimenti. Ma senza restare muti o inerti. Con la speranza che Zaki torni presto al suo master e ai suoi studi.

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