Quelle morti inascoltate
venerdì 21 agosto 2020

Poche ore prima è passato dal negozio dell’amico. «Niente, volevo solo salutarti», gli ha detto. Poi è tornato a casa. Aveva già scelto la trave più robusta e lì si è appeso. Lascia due figli ancora piccoli, una moglie e amici che ogni tanto, negli anni a venire, si domanderanno perché, senza potersi dare una risposta convincente, capace di scacciare i sensi di colpa ("avremmo dovuto capire... già, ma come?"). Nel paese vicino, a una manciata di chilometri appena, altra storia simile. Prima è andato all’emporio ad acquistare una fune bella robusta. Poi è salito alla chiesina di San Rocco. Davanti alla grotta della Madonna di Lourdes c’è chi l’ha visto scrivere qualcosa su un foglio. L’albero davanti alla grotta è imponente. Si è impiccato lì, tra le braccia di Maria.

In Italia si tolgono la vita dieci persone al giorno. Più di tre quarti sono maschi. I due di cui abbiamo raccontato sono uomini di mezza età del Veneto pedemontano. Non vivevano in città, non dovevano sopportare lo stress della vita metropolitana, il lavoro a ritmo forsennato, la rincorsa ai consumi e quant’altro ci possa venire in mente. Probabilmente avevano una casetta tutta loro, un orto, un cane, aria buona, la montagna dove perdersi affogando disavventure e malinconie. Amici? Lì tutti si conoscono; sono iscritti ad associazioni, dagli Alpini all’Avis, fanno volontariato. "Amici" però è una parola grossa, forse troppo in certi casi.
Perché, dunque? Affanniamoci pure a domandarcelo, ma senza pretendere di ottenere una risposta che sia frettolosa e quindi falsa. Nessuno, mai, sa dire perché, forse perché neanche il suicida saprebbe dire perché, se non sussurrare (un sussurro muto, che nasce e muore nell’anima): soffro, soffro troppo e non sopporto più questa sofferenza priva di parole che non so raccontare neanche a me stesso né posso confidare ad alcuno poiché nessuno capirebbe, essendo una sofferenza interiore; e so già che cosa accadrebbe: mi darebbero del debole, del pauroso, del disertore dalla vita. Mi farebbero la predica. E non sopporterei, oltre al dolore, di essere pure giudicato.

La sofferenza c’è, enorme, diffusa, inesplorata attorno a noi e, Dio non voglia, dentro di noi. Ma pochissimi o nessuno la sa esplorare e raccontare. È una sofferenza senza parole perché scomoda, vergognosa, debole. Le parole... Quelle vengono spese non per incontrare, ascoltare e curare, ma per aggredire, odiare, condannare. Parole cattive tante, parole buone pochissime. Poiché dietro ogni parola c’è un pensiero, e i pensieri nascono dagli abissi più profondi dell’anima, viene il sospetto che tanti cattivi pensieri servano, a volte, a creare una cortina fumogena attorno alla propria sofferenza, per mimetizzarla e tacitarla. E l’aggressività potrebbe essere un maldestro tentativo di zittire la propria sofferenza interiore facendo soffrire gli altri, attribuendo a loro – i diversi perché immigrati, fan di un altro partito, credenti in un’altra fede... – la causa del proprio disagio. Un nemico, datemi un nemico da poter odiare, affinché non sia costretto a odiare me stesso.

Intanto, mentre ci dotiamo di innumerevoli parole che ci illudano di aver compreso le tante forme di disagio in cui inciampiamo nella vita quotidiana, non abbiamo parole per dire la sofferenza dell’anima. Quando deflagra, dieci volte al giorno, restiamo muti... e a poco a poco dimentichiamo, magari con il pensiero tanto falso quanto rassicurante: "Non ci stava con la testa, a me non potrebbe succedere". Il paradosso è che, almeno qui nel Veneto felix, un po’ tutti si dicono cristiani, credenti, fedeli. A messa ci si va poco, ma comunione e cresima i figli devono farle. Ai funerali la chiesa si riempie.

La fede... Almeno lei dovrebbe suggerirci che i misteri esistono; di fronte ai misteri è bene essere umili e chinare il capo; e l’anima umana è uno dei misteri più grandi, a cominciare dalla propria. Imparare ad ascoltarla, annullando i rumori di fondo, è esercizio per il quale non basta una vita intera. Ma solo così è possibile sperare di saper ascoltare gli altri, accoglierli, e porgere loro una mano. Una mano alla quale aggrapparsi, una mano al posto di una corda. (Da dove cominciare? Ad esempio cercando il film d’animazione 'La bottega dei suicidi' (2012) di Patrice Leconte. Un gioiello. E sostenendo la proposta di legge 'Disposizioni per la prevenzione del suicidio e degli atti autolesionistici', primo firmatario Cristian Romaniello, di cui 'Avvenire' ha scritto lo scorso 11 luglio: educazione, formazione, scuola, assistenza a familiari e amici, un numero verde. Tutto per un 'ascolto' in ogni direzione, profondo, capace di cogliere la sofferenza muta).

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