«La Cina è un amico fidato dell’Afghanistan e non attendiamo altro che incrementare questa millenaria relazione». «Abbiamo sempre rispettato la sovranità, l’indipendenza e l’integrità del nostro vicino a e continueremo a farlo in un’ottica di sviluppo e prosperità nello sforzo comune nella realizzazione della Via della Seta». La prima frase – riportata dal China Daily, quotidiano ufficioso del Partito comunista cinese – è del vertice taleban. La seconda proviene dal Ministero degli Esteri di Pechino.
Non occorre essere esperti di sottigliezze diplomatiche per accorgersi che dietro a questo paravento di lacca di sapore un po’ retrò si cela una realtà: a neanche una settimana di distanza dalla presa di potere dei taleban e mentre il nuovo regime di Kabul si avvia a formare il proprio 'governo nazionale' la Cina si assume il ruolo e l’onere di Lord Protettore del Paese. Compito non difficile, considerando le disastrate condizioni economiche del Paese, l’assenza totale di ferrovie e l’industria estrattiva come unica risorsa e la necessità quindi di avere almeno un partner forte e dominante, capace di indirizzare lo sviluppo economico e di governarlo. Compito un po’ più difficile, invece, a causa dell’articolata composizione etnica dell’Afghanistan e della persistente tendenza a una sorta di autogoverno tribale, che ha fatto dire recentemente a Henry
Kissinger che questo antico cuore e crocevia d’Asia è un Paese sostanzialmente ingovernabile. Pechino ha già messo in conto tutto ciò e non intende farsi sfuggire la ghiotta occasione di esercitare la propria influenza in uno scacchiere – quello che va dall’Iran al Pakistan, dall’Uzbekistan al Turkmenistan al Tagikistan – improvvisamente lasciato libero dalla presenza americana e che altrimenti potrebbe rivelarsi una spina nel fianco.
Dell’Afghanistan la Cina ha bisogno non soltanto per gli appetiti che le prospezioni minerarie assicurano (le famose 'terre rare' delle quali Pechino è possessore e manipolatore mondiale per l’80% e di cui il Paese in mano ai taleban abbonda), ma anche perché un simile vicino alleato garantirebbe maggiore controllo del sottile corridoio che separa l’Afghanistan dagli uighuri del Xinjiang (la minoranza di etnia turcofona e di credo musulmano duramente repressa da Pechino). Un corridoio che se mal presidiato rischia di diventare il passaggio a nord-ovest per jihadisti e militanti del Daesh diretti in Cina.
La strada che Xi Jinping sta percorrendo è quella di una lenta, ma per ora inarrestabile, ascesa come gigante economico accompagnato da un’esuberante escalation negli armamenti.
Con una ferrea consegna finora rispettata: non entrare mai in conflitto sul piano militare; meglio fare land grabbing (l’acquisto di immensi lotti di terreno presso le nazioni più povere a scopo agricolo o minerario) e acquisire imprese, porti e zone di stoccaggio in Europa e nel Mediterraneo. Il 'protettorato' afghano non è che un tassello di un disegno iniziato ormai una decina d’anni fa. Non sfugge, tuttavia ,come Xi stia imprimendo al suo immenso Paese un segno che ricorda molto da vicino quello dell’epoca di Mao Zedong. E non soltanto per la fin troppo allusiva divisa grigia dal colletto abbonato che era propria del Grande Timoniere mostrata in pubblico sulla Piazza Tienanmen in occasione del centenario della nascita del Partito comunista celebrato appena due mesi fa: la tradizione che va a braccetto con la modernità e fa a meno della democrazia. Per gli afghani si schiude da oggi l’anno del Dragone.
Cosa vogliono davvero i cinesi da loro è abbastanza chiaro: diventare il dominus politico della regione, lasciando al Pakistan e all’Iran l’onere di contenere gli eccessi della zona tribale e guadagnandosi la fetta più sostanziosa delle ricchezze minerarie afghane. In cambio offriranno a Kabul una normalizzazione nei rapporti internazionali e un ombrello protettivo al Palazzo di Vetro che si estenderà fino al Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Taleb ( taleban al plurale) nell’idioma pashtun significa 'studente'. Della cultura di questi studenti coranici crediamo di sapere molte cose, ma ignoriamo quasi tutto. Chissà se nelle loro tradizioni sia mai esistita un’espressione icastica come Timeo Danaos et dona ferentes, quel verso del Secondo libro dell’Eneide che sta per 'Temo i Danai (ossia i Greci) anche se recano doni'. È il monito che Laocoonte pronuncia invano invitando i troiani a non fidarsi degli Achei e a rifiutare il cavallo di legno che gli hanno lasciato in dono. Quel cavallo che sarà la rovina di Troia. Nessuno può dire per ora se la generosità di Pechino di oggi non sia una trappola per l’Afghanistan di domani. Magari per entrambi, il Dragone e i suoi possibili vassalli.