domenica 9 dicembre 2012
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«L’opera di Wagner contie­ne elementi psico­analitici molto forti, soprattutto nel rapporto tra i due protagonisti, Lohengrin ed Elsa, che vivono di proiezioni e non di sentimenti reali...». Claus Guth, il regista dell’opera che quest’anno ha inaugurato la stagione scaligera, ci aveva avvertiti: il suo Lohengrin sarebbe stato un viaggio nei meandri della psiche e nelle nebbie del dubbio, e si sarebbe mosso «in una sorta di gabbia pesante, che pare una fabbrica o una caserma». Dunque non ci siamo stupiti più di tanto di fronte all’ennesima trasposizione di epoca – dal Medioevo all’Ottocento – e neanche ai personaggi vestiti alla moda del Gattopardo.
D’altronde ormai da molti anni registi e scenografi reinterpretano 'liberamente' quanto gli autori avevano rigorosamente fissato nel libretto dell’opera e ci sarebbe da chiedersi quanto questo 'liberamente' sia lecito e fino a che punto la creatività di chi viene dopo abbia il diritto di sovvertire le volontà di chi ha dato origine – secondo proprie ispirazioni e precisi obiettivi – all’opera stessa. Attribuiamo pure al regista la libertà di trasferire e trasformare a suo genio, purché sempre e comunque tenda a esprimere infine ciò che l’autore intendeva: se il vincente diventa lo sconfitto, l’arbitrio è evidente. Così ieri, dopo una 'prima' della Scala entrata nelle case di mezzo mondo (resa sublime dalla musica di Wagner e dalla bravura degli interpreti), critici e giornalisti dovevano scomodare lo stesso Freud per comprendere come il fervente cavaliere senza macchia, Lohengrin, figlio di Parsifal, re del Santo Graal, sceso in terra per difendere l’innocente, per tutta l’opera si muovesse e comportasse come un perdente.
L’inviato da Dio, voce della verità contro la menzogna, forte della sua 'virtuosa purezza', che secondo il libretto di Wagner irrompe 'in lucente armatura d’argento, l’elmo sul capo, in piedi, appoggiato alla sua spada', alla Scala si è presentato rannicchiato a terra e tremante, per poi di atto in atto trascinare sulla scena incertezze, paure, tic nervosi, più adatti a un paziente di Freud, appunto, che a un Cavaliere del Graal. E questo è ben più grave della sua camicia bianca da Cavaradossi ( Tosca), perché capovolge il messaggio, addirittura cambia il finale. La trama ovviamente resta immutata: Lohengrin, mandato tra gli uomini per sconfiggere il male, ha il solo divieto di rivelare la sua identità, ma è costretto a ripartire quando l’amata Elsa lo induce a venir meno al patto, ingannata dalla malvagia Ortrud che insinua in lei il dubbio sul suo amore.
Come l’Orfeo del mito greco, che mancò di fede e si voltò a guardare Euridice perdendola così per sempre, allo stesso modo Elsa dubita e perde per sempre il marito, mentre Ortrud, personificazione della frode, trionfa. O così sembra, perché l’ultima azione di Lohengrin è ancora vincente, con il bene che schiaccia il male e il duca Goffredo che è liberato dall’incantesimo di Oltrud. Una vittoria che il cavaliere ottiene per pura fede, solo 'cadendo in ginocchio con atto solenne e in muta preghiera', scrive Wagner. Non così sul palco della Scala, dove si allontana disperato e sconfitto.
Nel Lohengrin di Barenboim, insomma, Lohengrin non vince, il bene non trionfa, la fede vacilla, il dubbio imperversa. Impossibile non ripensare al Don Giovanni scaligero (sempre diretto da Barenboim) del 7 dicembre di un anno fa, dove l’immorale risaliva irridente dagli inferi in cui Mozart lo aveva sprofondato e a soccombere erano le sue vittime. Nella realtà avviene spesso, è innegabile, ma è nella vita vera che il finale andrebbe cambiato, non a teatro dove – talvolta – la giustizia trionfa già in terra.
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