giovedì 24 febbraio 2011
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Sarebbe davvero imperdonabile se ai tanti errori compiuti dalla comunità internazionale nei riguardi di Gheddafi, si aggiungesse un ultimo, tragico abbaglio: quello di sottovalutare la follia distruttrice e la capacità sanguinaria di un tiranno che nel suo delirante discorso alla nazione si è detto pronto a una nuova Tien An Men pur di conservare il potere. Lo sfaldamento della Jamahirya è già costata migliaia di morti. Ed ora c’è il rischio che il Colonnello di Tripoli voglia trascinare l’intero Paese nella sua rovinosa caduta. Si preannuncia feroce l’ultimo latrato del «cane rabbioso» (così l’aveva impietosamente definito Reagan) cui tutti, non solo i diversi governi italiani, hanno accarezzato il pelo nell’illusione d’averlo ammansito fino a trasformarlo in un decisivo alleato nella guerra contro il terrorismo, oltre che in un prezioso socio d’affari.Ma, giunti a questo punto, non serve a nulla perdersi in tardive recriminazioni. Occorre agire adesso, perché domani potrebbe essere troppo tardi. L’Unione Europea ha condannato la violenza scatenata dal dittatore libico contro il suo stesso popolo. Una presa di posizione giusta ma che rischia di rimanere ininfluente se non viene accompagnata da misure concrete. Quali? Cominciamo con lo scartare definitivamente le più bislacche, tipo quella avanzata inizialmente dal nostro governo secondo cui Gheddafi dovrebbe avviare un processo di riconciliazione nazionale (sarebbe come proporre Dracula a capo dei donatori di sangue). Gli Stati Uniti d’America, seguiti dalla Germania, stanno pensando a sanzioni economiche e alla sospensione delle attività delle compagnie petrolifere in Libia. Uno schema punitivo che potrebbe avere qualche effetto, sia pur discutibile, su un Paese controllato saldamente da un dittatore (vedi l’Iraq di Saddam Hussein negli anni Novanta) ma non su un regime che s’avvia alla fine in uno scenario da guerra civile.Più che alle analisi dei politici val forse la pena affidarsi al parere di uno storico come Angelo Del Boca, profondo conoscitore della Libia e del suo dittatore: «Gheddafi non può reggere. Cadrà, è questione di giorni. Ma dopo di lui si torna al tribalismo». In Libia convivono culture arabe, berbere e africane, una ricchezza che in questo caso diventa un elemento di grande debolezza. Sotto i colpi della rivolta e della repressione la Cirenaica ha già scelto di fatto la secessione, l’esercito si è spaccato. E c’è il rischio che nel vuoto di potere la popolazione sia abbandonata a se stessa, facile preda di bande jihadiste da sempre presenti nel Maghreb. Si verrebbe a creare una nuova Somalia. O, ancor peggio, un Afghanistan, ma ricco di petrolio, sulle rive del Mediterraneo. Uno scenario da incubo, con la prospettiva di una massiccia ondata migratoria sulle coste del nostro Paese.C’è qualche profeta del malaugurio che si compiace nel dare per scontato un disastro sociale, politico e religioso. Invece, bisogna far di tutto perché il vento della libertà e della democrazia che soffia impetuoso dalla Tunisia all’Egitto non s’arresti ai confini della Libia. E per fermare il cupio dissolvi del tiranno sanguinario l’Occidente, e non solo esso, dev’essere pronto a ogni evenienza, anche a un intervento umanitario con i Caschi blu dell’Onu. Ma è soprattutto l’Unione Europa che deve battere un colpo. La crisi libica è un test cruciale per riempire finalmente di senso quel vuoto simulacro che chiamiamo "politica estera europea" e dare un lavoro degno di questo nome al suo Alto Rappresentante, l’ineffabile baronessa Ashton. Se l’Italia riuscirà in questa battaglia, evitando l’impressione di mendicare un po’ di aiuto per una questione che riguarda il futuro di due continenti, avrà fatto un’opera meritoria.
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