sabato 10 giugno 2023
Oltre la solidarietà spontanea che viene fuori con le emergenze, come in Emilia-Romagna, la realtà comunica un disimpegno simile a quanto avviene nel caso della partecipazione politica
Giovani volontari al lavoro in Romagna dopo l'alluvione

Giovani volontari al lavoro in Romagna dopo l'alluvione - ANSA

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La fotografia Istat sul non profit, scattata nel pieno della pandemia, non lascia margini di dubbio: mentre il Terzo settore continua a crescere nel numero di enti e di dipendenti (arrivati rispettivamente a quota 363mila e 870mila), i volontari diminuiscono notevolmente e nel 2021 sono 900mila in meno rispetto ai 5,5 milioni registrati nel 2015. Che l’emergenza Covid, imponendo l’isolamento fisico e riversandosi negativamente anche sulla psiche e la propensione alla socialità delle persone, avrebbe avuto un enorme impatto anche su questi numeri, era più che prevedibile. Sappiamo anche quanto abbiano potuto incidere le trasformazioni socio-economiche degli ultimi anni: disoccupazione, precarietà o salari indignitosi da una parte, difficile conciliazione vita-lavoro e meno tempo libero a disposizione, dall’altra, sono tutte condizioni che ostacolano un saldo impegno individuale a favore della comunità. A ciò, naturalmente, si aggiunge la forte denatalità che frena il ricambio generazionale.

Ma il fenomeno del calo dei volontari è iniziato ben prima della pandemia e va analizzato legandolo a quello della partecipazione alla vita democratica del Paese: per questo è anche più grave di come oggi alcuni lo interpretano. Vedere, ad esempio, tanti giovani in queste settimane attivarsi spontaneamente e andare, “armati” di pala e buona volontà, nelle zone alluvionate dell’Emilia-Romagna, ha aumentato l’attenzione sull’innato spirito di solidarietà umana che, fortunatamente, resiste alle crisi sociali e alla carenza di spazi di partecipazione, soprattutto per le nuove generazioni. Questa solidarietà spontanea, a cui assistiamo spesso (e di cui gioiamo) a ridosso di eventi drammatici che travolgono i nostri territori, rende evidente a tutti il valore del contributo che ciascuno può dare alla comunità, anche se temporaneo. Ci ricorda di quante energie positive gode il Paese e ci conforta sul fatto che l’individualismo e l’indifferenza non potranno vincere.

Un conto, però, è valorizzare e rendere merito all’impegno volontario di tanti giovani di fronte a un’emergenza, un altro è dedurre che queste forme di attivazione, occasionali e individuali, siano la nuova e crescente modalità di impegno che “bilancia” le perdite nel volontariato organizzato, ovvero quello tipico del mondo delle associazioni. Purtroppo non è così. Per comprendere meglio il fenomeno, leggiamo i dati dell’ultimo censimento sul non profit insieme a quelli, sempre Istat, dell’indagine multiscopo sulla vita quotidiana degli italiani: tra i vari aspetti indagati, vi è anche quello dell’azione volontaria. Si evince in modo chiaro, purtroppo, come dal 2015 a oggi a calare in modo progressivo siano state tutte le attività volontarie (compresa la partecipazione a riunioni per l’ambiente, la pace o i diritti civili) sia dentro le associazioni di volontariato che fuori. Nel primo caso, infatti, si passa dal 10,6% al 7,3% della popolazione che dichiara di svolgerle, nel secondo dal 3,5% al 2,1%.

Facciamo attenzione, allora, a letture semplicistiche, seppure “consolatorie”: il calo di partecipazione è ovunque, non solo nelle “tradizionali” organizzazioni di Terzo settore, e si somma al crollo già ampiamente registrato negli ultimi anni della partecipazione politica ed elettorale. Tutto ciò apre uno scenario decisamente preoccupante, che deve interessare tanto il mondo dell’associazionismo quanto le istituzioni e l’intero Paese: davanti abbiamo tutti il rischio concreto di una società civile sempre più stagnante. E se a causarla sono state anche le ferite emerse nei meccanismi di rappresentanza che hanno minato inesorabilmente il senso di appartenenza a un sistema di valori e prodotto disaffezione e sfiducia verso le istituzioni, la risposta non può essere un’ulteriore spinta alla cosiddetta disintermediazione nell’impegno sociale e politico.

È molto probabile che i giovani volontari “occasionali” accorsi in Emilia-Romagna, oltre a volersi rendere utili in un momento critico, abbiano cercato esperienze di senso di cui avvertono la mancanza quotidianamente, una giusta canalizzazione di quell’energia e desiderio di “sentirsi parte” di qualcosa, che con difficoltà trova altri sbocchi. Il Terzo settore, anche nella recente alluvione, ha mobilitato la gran parte dei volontari in modo “tradizionale” attraverso associazioni di Protezione civile, circoli, case del popolo, oratori e tutte quelle reti che sono il tessuto sociale delle nostre comunità. Ma può e deve offrire anche a chi non ne fa parte o è restio a farlo, l’opportunità di una cornice in cui vivere e approfondire la solidarietà, la socialità, un orizzonte di idee condiviso, anche mettendo in discussione e rinnovando le modalità di “reclutamento” finora attuate. Non possiamo pensare che il capitale sociale sia solo “potenziale” o si contragga al minimo in assenza di particolari esigenze che richiedono principalmente “braccia”: al contrario, è auspicabile che sia una presenza costante che si auto-rigenera, che agisce sulla base di chiare motivazioni e con determinati valori. Radicata nel tessuto sociale, non volatile e intermittente. Un flusso di energia a cui è assicurata la continuità.

Per tutto questo, però, è richiesta organizzazione. C’è bisogno allora di ripensare e adeguare gli attuali strumenti di promozione del volontariato. Ma c’è bisogno soprattutto di politiche attive per le nuove generazioni. A partire dalla scuola, che dovrebbe essere il pilastro principale di una comunità educante, composta anche dal Terzo settore, in cui fare esperienza di cittadinanza attiva. Il ruolo dell’istituzione scolastica nella promozione della cultura del volontariato è sottolineato anche nel Codice del Terzo Settore, insieme al tema del riconoscimento delle competenze dei volontari come fattore “attrattivo” per i giovani: perché su questo non si sono fatti passi avanti? È un aspetto cruciale, su cui il Forum Terzo Settore e la Caritas Italiana stanno investendo molto con l’iniziativa “NOI+”. Siamo infatti convinti che, di fronte a sfide sociali sempre più impegnative che quindi vedono protagonisti dei volontari sempre più formati e competenti, debba crescere ed essere formalizzato il riconoscimento esterno verso di essi. In questo modo tutto il volontariato acquista valore.

Anche il mondo del lavoro potrebbe dare un grande contributo, promuovendo iniziative come gli incentivi al volontariato d’impresa. Accontentarsi di spiegazioni semplici per un fenomeno complesso, come sempre non farà scomparire i problemi, ma piuttosto li aggraverà: davanti a un tessuto sociale disgregato e che non riesce a “ingaggiare” le migliori e più giovani risorse, dobbiamo tutti sentirci coinvolti e compiere uno sforzo collettivo di ascolto, messa in discussione e di costruzione di spazi reali di partecipazione.

Vanessa Pallucchi è portavoce del Forum Terzo Settore


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