Le chiavi della Pace
venerdì 5 marzo 2021

La certezza è che oggi il Papa mette piede a Baghdad. «Sono appena rientrato dalla cattedrale dove ero andato a vedere i preparativi per l’arrivo di Francesco. C’era lì una donna musulmana, che era venuta a pregare la Vergine Maria. Lei mi ha detto: 'Grazie a Dio, il Papa viene. Questa visita è come l’ultima speranza per noi iracheni'».

Queste parole e quest’immagine colte nelle ultime ore dal cardinale Louis Raphaël Sako, patriarca di Babilonia dei Caldei, possono far capire certamente molto di ciò che rappresenta la prima volta apostolica di un Papa in un Paese dalla millenaria ricchezza culturale, etnica e religiosa spazzata via da quattro guerre negli ultimi quattro decenni e dove le violenze settarie e jihadiste che hanno incendiato e spaccato l’Iraq dopo l’invasione Usa del 2003 hanno lasciato senza un tetto più due milioni di persone, per metà bambini. «Il 2021 è un tempo da non perdere – aveva detto papa Francesco rivolgendosi al corpo diplomatico all’inizio dello scorso mese – e non sarà sprecato nella misura in cui sapremo collaborare», aveva aggiunto.

Affermando poi che «la fraternità e la speranza sono medicine di cui oggi il mondo ha bisogno, al pari dei vaccini». Si è detto che le prerogative di questa visita sono l’incontro con le comunità cristiane, la vicinanza alla popolazione irachena e l’approfondimento dei rapporti tra le diverse fedi e si può dunque comprendere non solo la speranza, ma anche l’urgenza di questa visita. E il valore che questa assume per i cristiani che a fronte di violenze e abusi scappano da quella che per millenni è stata casa loro, e allo stesso tempo per tutti gli iracheni, esausti dopo decenni senza pace, vessati dalle interferenze esterne e da una politica che può essere tale solo andando oltre i settarismi in un contesto a cui si aggiunge la pandemia di coronavirus che ha messo in ginocchio un’economia e società già provate. In questo senso la venuta del Papa – desiderata dalla popolazione – non è solo speranza è già una vittoria della pace, che guarda oltre e lontano.

Perché dalle ombre di questi tempi difficili possano aprirsi altre prospettive, considerato anche il contesto geopolitico: la pressione delle tensioni regionali, come quelle tra Iran e Arabia Saudita e quelle globali a partire dagli Stati Uniti, affinché da questa regione cruciale sia riscoperta la prospettiva di un destino comune che possa stemperare le contrapposizioni per costruire la fiducia, la pace e la stabilità in un tempo in cui il dialogo interreligioso costituisce un’opportunità non solo per i leader religiosi e per i fedeli delle varie confessioni, ma può sostenere l’opera fattiva dei leader politici nella loro responsabilità universale di edificare il bene comune.

Per questo motivo il viaggio apostolico in Iraq è un passo storico non solo per tutto il Medio Oriente, che va capito. Perché la prospettiva di pace che comporta e implica è incompatibile con identitarismi o progetti settari e miliziani. A Baghdad il poster della massima autorità sciita del Paese, ayatollah Alì al-Sistani, campeggia accanto a quella di papa Francesco con la frase: «Voi siete una parte di noi e noi siamo una parte di voi». Un modo suggestivo per dire 'siamo fratelli'.

E in questo senso va declinato nella sua portata storica uno dei momenti più alti del viaggio apostolico in Iraq: il primo incontro con l’ayatollah al-Sistani, il leader spirituale alla guida della Hawza di Najaf, che è stato capace di imprimere svolte significative a impasse apparentemente senza via di uscita superando linee di divisione profonde. La maggioranza del popolo iracheno è sciita. Papa Francesco non incontra al-Sistani a Baghdad, va lui – ancora una volta sul modello del Povero d’Assisi – a incontrarlo nella città santa dell’islam sciita, va a Naiaf che per gli sciiti equivale a quello che Gerusalemme significa per tutta la cristianità. E così dopo la firma del Documento sulla fratellanza umana con il leader sunnita al-Tayeeb ad Abu Dhabi, il Papa sembra farsi qui 'ponte' anche tra gli stessi sciiti e i sunniti.

Ma per dire ancora anche un’altra cosa chiara: che il futuro della presenza dei cristiani martoriati di questa regione passa per la ricucitura del tessuto interetnico e interreligioso lacerato dai settarismi che non sono la vera fede. Che se il nome di Dio, strumentalizzato da criminali nelle più irrefrenabili violenze, viene invece usato per fare unità, allora ogni ricucitura è possibile. Da questa cerniera del Medioriente il Successore dell’Apostolo Pietro mostra ancora una volta al mondo che una via di scampo per uscire dalla spirale dell’auto- annientamento messa in moto dalle agenzie economiche del terrore si può cercare solo insieme, e non contro gli altri. E che le diverse confessioni di fede sono una risorsa di pace. E possono andare insieme contromano rispetto a tutte le strategie miranti a intimidire, umiliare, isolare, distruggere. Se la prima volta di un Papa in un un Paese a maggioranza sciita passa per la Terra di Abramo. Se la chiave di volta è la fratellanza. Se l’Iraq è la Porta del Mediorente. Le chiavi per la pace sono qui.

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