La via alla cattedra sia per un po' certa
mercoledì 15 febbraio 2017

Si sta molto dibattendo – anche su questo giornale – a proposito del nuovo assetto dell’esame di maturità, essendo il relativo decreto in discussione presso la Commissione Cultura della Camera. Il Parlamento sta però esaminando anche altri sette decreti attuativi della legge sulla buona scuola (la 107 del 2015), concernenti diversi temi di legislazione scolastica. Uno di questi riguarda l’accesso ai ruoli della professione docente. Potrebbe sembrare un argomento tecnico; si tratta invece di una questione di primaria rilevanza culturale e civile: chiedersi come si arriva a ricoprire una cattedra significa interrogarsi sui profili e sulle qualità professionali delle decine di migliaia di insegnanti che faranno la scuola di domani.

Diciamo subito una cosa: chi sceglie di insegnare merita di avere di fronte a sé un percorso certo basato su regole certe. Questo perché nel corso degli anni riforme e riformine si sono succedute a ritmi così frenetici da mutare continuamente la normativa: prassi inaccettabile e segno di scarso rispetto nei confronti di chi, nonostante tutto, decide di insegnare. Diciamo 'nonostante tutto' poiché sappiamo che il panorama scolastico non è dei più rosei: chi vuole salire in cattedra sa che spesso lo attenderanno anni di precariato e uno stipendio che è tutto tranne che allettante. Nonostante ciò si resiste, e nella gran parte dei casi a motivare tale 'resistenza' non è tanto l’obiettivo del cosiddetto 'posto sicuro' quanto un’autentica passione e un’insopprimibile vocazione.

Negli anni, si diceva, le regole sono mutate più volte. Per la scuola secondaria, ad esempio, un tempo, conseguita la laurea, c’erano prima un esame di abilitazione e poi un concorso a cattedre. Successivamente sono stati banditi concorsi a cattedre con valore abilitante, sostanzialmente di due tipi: 'ordinari', cioè aperti a tutti, più duri e selettivi, e 'riservati', aperti soltanto a chi avesse maturato alcuni requisiti (come ad esempio un certo numero di mesi o anni di supplenze svolte), i cui programmi erano ridotti e le cui maglie erano più larghe (tanto da assomigliare in molti casi a vere e proprie sanatorie ope legis).

Ultimamente, invece, sulla scorta di quanto avviene nel resto d’Europa, si è stabilito che dopo la laurea bisognasse prima frequentare un corso universitario di specializzazione finalizzato all’acquisizione di specifiche competenze didattiche (e con questo ottenere l’abilitazione) e dopo iscriversi al primo concorso utile.

Ora il nuovo decreto prevede un altro ribaltamento di prospettiva: prima il superamento di un concorso (subito dopo la laurea e senza abilitazione) e poi la frequenza del corso abilitante. L’acquisizione delle competenze pedagogiche inizia, però, già nel percorso universitario: per iscriversi al concorso è infatti previsto il requisito di aver superato un certo numero di crediti formativi nelle discipline antropopsico-pedagogiche e nelle metodologie e tecnologie didattiche. Si stabilisce che il concorso verrà bandito su base regionale e con cadenza biennale. Le prove saranno tre: due scritte e una orale. Il primo scritto andrà a testare le conoscenze disciplinari: questo è un bene, perché nessuno, per quanto attrezzato metodologicamente, potrebbe insegnare adeguatamente una materia che non conosce in profondità. Altri due elementi positivi: chi supererà il concorso stipulerà con l’Ufficio scolastico regionale un contratto triennale, retribuito, di formazione iniziale e tirocinio e gli oneri economici della frequenza del corso di specializzazione saranno a carico dello Stato (mentre oggi sono a carico degli specializzandi). Nel frattempo il docente in formazione si impegnerà ad acquisire l’abilitazione, che sarà indispensabile per l’assunzione, tre anni dopo, a tempo indeterminato.

Ci sembra insomma che la normativa disegni un iter chiaro e lineare, offrendo qualche sicurezza in più agli aspiranti maestri e professori. Se il testo non subirà scossoni in Commissione Cultura e verrà così approvato, ci auguriamo una cosa: che la legge non venga cambiata per almeno dieci anni. Speriamo cioè che i governi che verranno non si facciano prendere da quell’immotivata smania di cambiamento che spesso ha effetti più deleteri che utili: una 'moratoria' in tal senso è a questo punto davvero irrinunciabile.

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