domenica 6 settembre 2009
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Caro Direttore,la chiamo ancora così perché le sue dimissioni sono il frutto tanto della sua limpidezza d’animo e di comportamento quanto di una estorsione consumatasi davanti agli occhi di tutti. Se dovessi scrivere un articolo su questo fatto inizierei con le parole famose: da oggi siamo tutti meno liberi.Anzitutto, desidero renderle un omaggio che riguarda la sua persona, per come l’ho conosciuta in questi ultimi anni di collaborazione all’Avvenire, e che vuole esprimere la mia gratitudine e apprezzamento per il tratto, la sensibilità, la finezza, l’equilibrio che caratterizza il suo comportamento nei rapporti con gli altri e nella conduzione di un giornale sempre impegnato per la promozione di valori fondamentali, che non passano, che possono essere dileggiati, ma resistono al tempo e agli insulti.C’è un punto, in tutta la vicenda di questi sciagurati giorni, che forse non ha avuto il rilievo che meritava. E riguarda la confessione che in un certo senso è stata fatta da chi ha avviato il tutto ed ha scritto: «Da brigante a brigante e mezzo». Confessando così che si è deliberatamente usato un mezzo brigantesco per aggredirla, con l’aggiunta che il brigante originario non era lei ma un altro soggetto. Come dire, se qualcuno mi aggredisce, io aggredisco (non si sa bene perché) una terza persona con ancor maggiore cattiveria. Lei è la terza persona che aveva avuto solo il "torto" di commentare con equilibrio, eppur con verità, con misura, eppur con saggezza, una questione politica nazionale di cui ha parlato mezzo mondo. Ecco dove sta la ferita inferta a lei, e per suo tramite a tutti: chi pensa, scrive, critica, anche se con sapienza riconosciuta da tutti deve aspettarsi ritorsioni magari fondate sul nulla.E questo è l’altro aspetto che lascia la più grande amarezza, soprattutto dopo le sue dimissioni. Mentre giorno dopo giorno, ora dopo ora, il castello di accuse e insinuazioni si andava auto-distruggendo e si rivelava per ciò che era, il frutto di uno scritto anonimo, lei ha compiuto un gesto tanto nobile quanto amaro per lei e per tante persone, cattoliche o laiche, lettori o no di Avvenire, rassegnando le dimissioni. Sembra che l’aggressore l’abbia avuta vinta, e per un momento così ho pensato. Leggendo, però, la sua lettera di dimissioni, sono rimasto colpito da un passaggio quando ricorda con gratitudine la coralità con la quale la Chiesa è scesa in campo per difenderla. Io credo si tratti di una coralità non solo quantitativa ma qualitativa, perché riflette una ferita che è stata inferta in un corpo sociale che vive di valori, di volontariato, alla ricerca di un miglioramento delle condizioni materiali e spirituali di tutti. Io credo che questa ferita non si rimarginerà, proprio perché nata dal nulla e inferta a chi è incolpevole di tutto.Solo leggendo la sua lettera di dimissioni ho capito come lei abbia dato nobiltà alle dimissioni (per sé ingiuste e sostanzialmente coartate), e indirettamente ad una situazione che stava diventando deprimente per tutti. E solo leggendo la sua lettera ho compreso che le dimissioni sono state la risposta più nobile che si poteva dare a chi nobile non era stato e che adesso ha motivo per riflettere, riflettere anche sul fatto che la ferita provocata non è una qualsiasi lesione che passa subito. Il passato è già passato, ma la lesione alla libertà sua e di tutti resta. Dovremo tenerne conto nell’agire futuro.
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