venerdì 1 luglio 2022
Il dramma di una società che si spacca tra chi sa e chi non vuol vedere. Come è stato in Germania dopo il nazismo, sarà dura per il popolo russo fare i conti con le brutalità e l’odio seminato
La Piazza Rossa

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Per interpretare la Russia e in particolare quella profonda, bisogna avere conoscenza non solo della lingua, ma avere un rapporto con la cultura e la mentalità di quella vasta terra e dei tanti popoli che la abitano. E anche così resta difficile entrare del tutto nella testa delle persone che in quel Paese sono travolte dalle decisioni e dalle conseguenze di chi li ha trascinati nella nuova e terribile fase della guerra d’Ucraina, in questo vicolo cieco. Chi analizza dal punto di vista non solo politico ma soprattutto sociologico e psicologico ciò che sta accadendo afferma che come per il popolo tedesco dopo il nazismo, sarà durissima per il popolo russo fare i conti con le brutalità e l’odio seminato. Sarà un trauma che getterà in una profonda depressione chi prenderà coscienza di ciò che finora viene rimosso e negato. Perché Bucha è lì, e non si può credere che sia vero ciò che è accaduto. «Vorrebbe dire riconoscere che il proprio figlio è un mostro, uno stupratore», mi ha detto un’amica di Tomsk, Larisa. «Sarebbe qualcosa di impossibile da accettare senza crollare, senza disperarsi, senza riuscire a perdonarsi».

In questi durissimi mesi di dolore per la guerra, ho continuato a comunicare con chi è in Russia e a leggere quanto tutti i giorni viene riversato sui canali social della società civile e sui media del giornalismo indipendente. Un giornalismo che cerca caparbiamente la strada per continuare a fare il proprio servizio, offrendo una informazione libera, critica e capace di seguire e commentare gli avvenimenti drammatici sia dal fronte della guerra sia da quello interno. È una Russia parallela. Non è facile riuscire a leggere ciò che si muove e anche ciò che non si muove. I silenzi, le grida, l’abitudine ad adattarsi di una parte del popolo russo che ha vissuto la realtà dell’Unione Sovietica.

Come racconta nel suo documentario “Relazioni spezzate” il giornalista e regista Andrej Loshak, esiste una frattura interfamiliare e generazionale che sta attraversando la società russa, da nord a sud, da est a ovest. Ogni frammento di quel documentario restituisce attraverso le diverse e sofferte voci la ferita che sta segnando le relazioni tra genitori, nonni e figli. Un dolore che diventa strazio. Ogni frase, ogni parola, un colpo, una separazione. Fratture difficili da sopportare e che da ormai quattro mesi stanno scavando un solco di incomunicabilità, di incomprensione e svuotano anche solo l’idea del recupero di una lingua comune.

A essere diverse non sono le parole, i termini, ma il loro significato. La 'verità' rifiutata da parte dei genitori che credono esclusivamente alla televisione, alla propaganda di regime trasmessa dagli unici canali tv sopravvissuti alla censura, poiché totalmente asserviti agli ordini del Cremlino. I figli, invece, seguono le notizie tramite internet, sui social e sui siti web che offrono informazione indipendente. Le immagini da Bucha, da Mariupol sono ragione di scontro, perché per i genitori sono fake news costruite ad hoc mentre per i figli sono lacerazioni-rivelazioni difronte alle quali non si può rimanere inerti. Non si può tacere. Dal 24 febbraio non si possono più chiudere gli occhi. Fra loro c’è chi ha provato a lungo a cercare di stabilire una comunicazione, fin quando la frattura è diventata senza ritorno. E fioccano le accuse di tradimento della patria, di vergogna della famiglia per quella figlia o quel figlio che manifestano sin dal primo giorno la propria contrarietà alla guerra. E tutto questo porta a chiudere reciprocamente le orecchie, a determinare la “disconnessione” delle relazioni sentimentali e familiari. Accade anche tra fratelli, tra sorelle. Proprio com’è accaduto sempre nelle guerre in cui i popoli sono trascinati.

Ci sono luoghi, storie e processi sociali e culturali non conosciuti o ignorati dai media e dagli occidentali che impediscono di comprendere come parte della popolazione russa possa essere disposta a credere alla propaganda di Putin o a tacere rimuovendo, più o meno consapevolmente, la realtà. Nessuno può intuire come possa evolvere e quanto in fretta possa crollare il castello di bugie sui civili uccisi, sugli stupri, sugli ormai più di 40mila soldati russi che non torneranno a casa e di cui le madri reclamano almeno i corpi. Per quanto tempo ancora il popolo di questo grande Paese continuerà ad accettare l’invito a “star tranquillo”, a credere che la Russia ce la farà nonostante le sanzioni imposte dall’Occidente, dal pezzo di mondo che l’ha messa sotto assedio e scatenando una guerra strisciante da cui bisogna difendersi? Quanto ci vorrà perché questo popolo smetta di credere alle promesse di improbabile prosperità che il regime assicura? Perché le sanzioni, dicono gli esperti, cominceranno a incidere significativamente alla fine dell’estate e il risveglio sarà duro soprattutto per i più fragili, per i semplici cittadini. Forse proprio e soprattutto fra coloro che oggi sono vittime della propaganda. Le sanzioni occidentali, come dice la giornalista Najezhda Azhikhina, hanno messo nel mirino anche la società civile e gli studenti degli scambi universitari, costretti a fare i salti mortali, arrangiandosi per ovviare alle sanzioni bancarie. L’elenco dei giornalisti, degli artisti, delle persone comuni che hanno deciso di abbandonare il Paese ogni giorno si allunga.


Nel recente documentario 'Relazioni spezzate'
il giornalista e regista Andrej Loshak
mostra una profonda e drammatica divisione interfamiliare
che attraversa il Paese
Dimitri Muratov, premio Nobel per la pace,
continua tenacemente a lavorare,
viaggiare e parlare in tutta la nazione

Eppure sono in tanti, la maggioranza quelli che restano e resistono. Proprio come Dimitri Muratov, giornalista e premio Nobel per la pace, che continua tenacemente a lavorare, viaggiare e parlare in tutta la Russia. Lo fa, ogni giorno, anche comunicando pubblicamente con i lettori e i cittadini attraverso Facebook. Accanto a lui ci sono le persone che non cessano di portare nastri verdi, affiggere striscioni, fare graffiti per dire il proprio no alla guerra, per testimoniare ad altri che non si è soli e piano piano ritrovarsi, riconoscersi, unirsi. L’invito di Muratov a seguire il suo esempio e a vendere qualcosa di caro che si possiede per destinarlo a lenire le ferite procurate dalla guerra è un gesto di pace concreto che non è rimasto isolato. I 103,5 milioni di dollari ricavati dall’asta della medaglia del Nobel, soldi destinati ai bambini dei profughi ucraini, assieme a quanto già raccolto e destinato alle vittime ucraine della guerra dal caporedattore della “Novaja Gazeta” si somma alle iniziative piccole e meno piccole di altri singoli cittadini, che stanno prendendo sulle proprie spalle il carico della sofferenza e mostrano il volto civile e umano della Russia di domani.

Si delinea, però, un dilemma: chi è sostenuto da persone o realtà dell’Occidente diventa automaticamente un “agente straniero” e perciò rischia di essere perseguito e arrestato. Dunque, chi in Occidente vuole esprimere solidarietà e sostenere la società civile e i pacifisti russi rischia di mettere a repentaglio la loro incolumità e agibilità. Questa è la sfida, il passaggio difficile che bisogna trovare il modo di attraversare. Il primo passo per uscire dallo stallo dovrebbe essere il dialogo fra chi in Occidente è disposto ad ascoltare e a fare tutto il necessario per fermare i massacri e chi dall’altra parte del muro della guerra, delle propagande e dell’odio ci chiede di non essere dimenticato. 

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