In morte di padre Stan, testimone di fede e giustizia tra i poveri
martedì 6 luglio 2021

«Il costo del discepolato». Così, padre Stan Swamy concludeva la riflessione sull’azione sociale dei gesuiti fra i popoli indigeni dell’India centrale, pubblicata nel 2019 dalla rivista Promotio Iustitiae. Era consapevole di parlare in prima persona. Nei quattro decenni di cammino al fianco degli Adivasi del Jharkhand aveva dovuto sopportare calunnie, incomprensioni, minacce. Il cerchio si era stretto di più dopo il 2006, quando il gesuita aveva fondato Bagaicha, centro per la difesa dei diritti dei nativi, espropriati in massa dalle loro terre dalle multinazionali minerarie.

Con l’arrivo al governo dell’ultranazionalista Narendra Modi, nel 2014, era diventato un vero e proprio cappio. In base al draconiano Unlawful activities prevention act, migliaia di Adivasi e attivisti per i diritti umani erano stati arrestati senza prove con l’accusa di 'terrorismo'. L’8 ottobre sarebbe toccato anche allo scomodo padre Stan.

«Il costo del discepolato». In queste parole è racchiuso il senso della sua vita. E della sua morte, avvenuta alle 13.30 di domenica 4 luglio nell’ospedale Holy Family di Mumbai, dove era arrivato già allo stremo il 29 maggio.

A 84 anni, il religioso era prostrato dal Covid, di cui aveva mostrato chiari sintomi nelle settimane precedenti. Ma soprattutto era sfinito dalla reclusione nel carcere di Taloja dove era rimasto per 233 giorni e notti, nonostante l’età avanzata e il Parkinson. Lo aveva dichiarato, con un filo di voce, lo stesso padre Stan nell’ultima udienza in tribunale, il 21 maggio.

In video collegamento, il suo viso era apparso scavato e pallido. Gli occhi, però, emanavano la stessa forza carismatica di sempre mentre sussurrava: «Non posso più scrivere, passeggiare o mangiare da solo. (…) L’unica cosa che vi domando è di concedermi la libertà su cauzione». La risposta del giudice era stata implacabile: «Non ci sono gli estremi». Non era la prima volta che una Corte indiana rifiutava di concedere la condizionale o almeno gli arresti domiciliari al gesuita. Sarebbe, però, stata l’ultima.

La nuova udienza prevista per oggi non ci sarà.

Alla stessa ora, nella chiesa di Bandra, vicino all’ospedale, verrà celebrata una Messa funebre. Poi, il corpo di Stan tornerà a Ranchi, nel Jharkhand. Finalmente. Il desiderio di rientrare a 'casa', a prendersi cura degli «amici Adivasi», come li chiamava, era il grande desiderio del gesuita.

Sapeva che senza la sua voce profetica, la sua battaglia non violenta per la giustizia, il suo coraggio evangelico, gli indigeni sarebbero stati ancora più fragili di fronte all’avidità dei potenti. Sapeva anche, però, che un chicco di grano non muore invano. I germogli sono già spuntati in questi mesi, con il lavoro di PM Tony, che ha preso il posto di Stan al centro Bagaicha.

E con l’impegno, ribadito ieri dalla Compagnia di Gesù, a portare avanti l’impegno del proprio confratello per la riconciliazione e la giustizia. Ma l’ispirazione di padre Stan ha 'debordato' – per dirla con papa Francesco – dai confini della Chiesa. Tantissimi donne e uomini di ogni credo e orientamento e parte del mondo hanno fatto arrivare un ricordo, virtuale o reale, tramite le reti dei gesuiti. Stan, testimone fedele fino alla morte di Cristo e paladino dell’ecologia integrale, è vivo. Né il sistema giudiziario, né le false accuse, né la malattia hanno potuto uccidere un uccello che riusciva a cantare pure dietro le sbarre, per parafrasare una sua poesia che regalava speranza agli altri detenuti. Fino all’ultimo momento ha pensato a loro, mettendosi in secondo piano. Lo testimonia l’amico e confratello Xavier Jeyaraj, segretario per la giustizia sociale e l’ecologia della Compagnia. I due si sono potuti incontrare in videochiamata il 20 giugno. «Stan era steso sul letto, non poteva alzarsi – racconta padre Xavier –, era debolissimo. Eppure mi ha riconosciuto subito, ha sorriso e ha balbettato: 'Sono tornato un bambino prima della fine'. Quando gli ho detto che ci battevamo e pregavamo per la sua liberazione, è, però, riuscito a rispondermi: 'Non solo per me. Per tutti. Per tutti coloro che sono incarcerati ingiustamente. Io sono solo uno dei tanti'».

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