martedì 28 luglio 2009
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L’evocazione di un «partito del Sud», che in forme diverse è nata in questo periodo tra dirigenti meridionali del centrodestra insoddisfatti e tra qualche amministratore di centrosinistra che difficilmente sarà confermato nelle amministrative dell’anno prossimo, è stata liquidata dai partiti nazionali come espressione di interessi individuali e dalla Lega Nord come riesumazione di un «meridionalismo piagnone». È naturale che chi dispone di una rappresentanza parlamentare più o meno cospicua non incoraggi possibili nuove concorrenze, il che non significa che basti esorcizzare un fenomeno per evitarlo. Da un punto di vista concreto due novità del panorama politico, la prospettiva del federalismo fiscale che darà maggiori responsabilità ai livelli di governo intermedi e la conferma del meccanismo elettorale conseguente dalla nettissima sconfitta del referendum sul bipartitismo, danno una certa plausibilità alla possibilità di modificare il panorama politico attraverso formazioni fortemente collegate ad aree territoriali specifiche, mentre l’esito modestissimo delle proposte politiche nazionali di estrema destra e di estrema sinistra autorizza a credere che lo spazio per alternative di tipo ideologico si sia oramai chiuso. Da un punto di vista più generale, si può constatare come, all’esaurimento del meridionalismo storico – quello che, paradossalmente, ebbe tra i principali ispiratori due valtellinesi del calibro di Ezio Vanoni e Pasquale Saraceno – non abbia fatto seguito alcuna elaborazione della tematica della rinascita del Sud se non una polemica piuttosto ingenerosa che ha preso a pretesto la fase finale burocratica e clientelare della Cassa del Mezzogiorno per negare l’esigenza stessa di una visione organica della tematica meridionale. Con la fine della fase di prevalenza industriale, relativamente breve nella storia economica italiana, nel Sud è prevalso il terziario pubblico, mentre non si è costruito un tessuto sufficientemente solido nella produzione di servizi vendibili, con l’effetto di rendere la politica non il regolatore ma il soggetto principale e ipertrofico della vita economica. Una fase di crisi che ha imposto limitazioni ai trasferimenti possono rendere esplosiva la rivendicazione meridionale, e questo può effettivamente diventare la base per una aggregazione politica, che però – come è gi stato osservato su queste colonne – difficilmente potrebbe esercitare una funzione costruttiva se alla protesta non sapesse aggiungere una ipotesi credibile di mobilitazione di energie sociali e culturali capaci di far uscire il Mezzogiorno dalla condizione di marginalità. D’altra parte le formazioni nazionali, di fronte al riemergere della questione meridionale, hanno la responsabilità di offrire risposte non puramente pragmatiche, come sembra abbia in animo di fare la maggioranza, né puramente protestatarie, come è tentata di fare l’opposizione. Nel gioco politico, una presenza meridionale autonoma può agevolare questo o quell’altro polo e il rischio è che questo aspetto strumentale prevalga, come già è accaduto tante volte nella storia politica italiana così legata alle consorterie anche quando si presentava come confronto tra ideologie assai consolidate. Il malessere del Mezzogiorno, con i suoi tratti nuovi ed antichi, non ha mai tratto giovamento da questo rimpallo di convenienze, e difficilmente ne trarrà alcuno se anche questa volta l’evocazione meridionalista si rinchiuderà in rivendicazioni di settori di ceti dirigenti piuttosto screditati. Il malessere però è reale e profondo e una classe dirigente responsabile, dal centro o dal territorio, dovrebbe occuparsene seriamente, senza scorciatoie e senza improvvisazioni.
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