venerdì 27 agosto 2010
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I «fatti di Melfi» e l’intervento che ha voluto saggiamente essere pacificatore del clima sociale del presidente Giorgio Napolitano, inducono a riflettere sulla natura, sempre complessa, dei rapporti intercorsi nell’arco di oltre un secolo fra la dinastia Agnelli e il mondo della politica e delle istituzioni. Riassumibile in tre parole: l’azienda avanti tutta. Un principio-chiave della pragmatica filosofia di casa Agnelli, che l’avvocato Gianni mi tradusse in questa maniera: «Noi siamo governativi e istituzionali per definizione».Nel 1906, anno di crisi della nascente industria automobilistica italiana, l’azionista di minoranza Giovanni Agnelli con un colpo di mano borsistico riuscì ad assumere il controllo dell’azienda. I soci estromessi reagirono, portandolo in tribunale. Agnelli venne difeso con successo nientemeno che dal giurista Vittorio Emanuele Orlando, futuro presidente del Consiglio.Attenzione, però. Se è indubitabile che buona parte delle fortune della Fiat hanno le radici nelle forniture belliche (quindi governative) della guerra di Libia e della Prima Guerra Mondiale, è altrettanto vero che Giovanni Agnelli seppe gestire la situazione meglio di altri industriali. Soprattutto affrontò in quasi solitudine la stagione dell’occupazione delle fabbriche del 1920, allorché il leader e ideologo comunista Antonio Gramsci lo bollò sulle pagine di "Ordine nuovo", come «il gran bandito dell’industria eroe del capitalismo».Val la pena di ricordare: Giovanni Agnelli, rifiutata l’offerta del premier Giolitti di far intervenire l’esercito, attese pazientemente che la rivolta si sgonfiasse; e allorché una delegazione operaia, dopo un fallito tentativo di autogestione, gli consegnò le chiavi delle fabbriche smobilitando i picchetti armati, non cercò rivincite. Offrì un nuovo contratto: salari legati alla produttività, garanzia d’occupazione in un periodo di stagnazione dell’economia.Agnelli, nominato senatore del Regno, mai si oppose apertamente al fascismo (semmai lasciando spazio al figlio Edoardo, sempre in camicia nera e morto nel ’35 in un tragico incidente aviatorio a Genova); tuttavia anche attraverso le colonne de "La Stampa" divenuta il quotidiano di famiglia, mantenne un principesco distacco nei confronti di Mussolini. Persino quando il duce inaugurò l’avveniristico stabilimento di Mirafiori. Inoltre, a sfidare «il Capo», volle al proprio fianco un giovane commercialista di nome Vittorio Valletta, noto all’Ovra (la rete di spionaggio del regime) per le idee socialdemocratiche, l’appartenenza alla massoneria e collegamenti clandestini con antifascisti esuli in Francia, fra i quali Giuseppe Saragat. Giovanni Agnelli era tuttavia monarchico, in consuetudine con Vittorio Emanuele III. Dopo la guerra Gianni Agnelli, adorato nipote del fondatore, lasciò a Valletta carta bianca sino agli anni Sessanta.Valletta vantava solidi rapporti con l’establishment politico. Lo stesso Palmiro Togliatti, per inciso tifoso della Juventus, lo teneva in gran rispetto; nelle riunioni di partito dell’infuocato Dopoguerra, mentre le sinistre invocavano la nazionalizzazione delle industrie, ammoniva: «Lui sa far funzionare la Fiat, e la Fiat è l’Italia».Il consenso intellettuale non impedì a Valletta (sollecitato dagli Usa), di usare il pugno di ferro all’inizio degli anni Cinquanta. La Fiat si era lanciata (con una riuscita pressione lobbystica sui governi democristiani dell’epoca), in una strategia, la cosiddetta «civiltà delle ruote», che esigeva efficienza e massima produttività. Il modello americano di Henry Ford, insomma: un Ford che Valletta aveva conosciuto nel ’29 a Detroit, accompagnando Giovanni Agnelli. Allora, come in qualche misura appare adesso, a Melfi, la Cgil si mise di traverso. E furono licenziamenti, discriminazioni. Le neonate Cisl e Uil si schierarono per la produttività, e i risultati i lavoratori Fiat li trovarono in busta paga: presto le più generose d’Italia.Valletta consegna a Gianni Agnelli una Fiat potente, grande (oltre 200mila dipendenti), prestigiosa e che macina utili. Eppure arriva la tempesta, il ’68, la contestazione che si fa endemica, trasferendosi dai boulevard parigini alle fabbriche. Un decennio di tensioni al calor bianco, culminate nel settembre 1980 con il comizio di Enrico Berlinguer innanzi ai cancelli di Mirafiori occupata. Gianni Agnelli, sconsolato è sul punto di accettare la proposta del leader repubblicano Ugo La Malfa. Cedere l’intera Fiat, allo Stato, attraverso l’Iri. In cambio, la carica di ambasciatore in Usa. La tentazione è forte. Interviene da Mediobanca Enrico Cuccia: «Lei è stato ufficiale di cavalleria, e un ufficiale muore ma non getta la spada».Sarà Cuccia a propiziare l’ennesima resurrezione della Fiat, portando in azienda Cesare Romiti. Lui, il manager che risponderà a Berlinguer con la «Marcia dei Quarantamila»: i dipendenti che vogliono tornare a lavorare e a produrre. Nei successivi tre decenni, sino ai giorni nostri con Sergio Marchionne al timone, la Fiat ha attraversato ogni sorta di bufere. Pur, a più riprese, aiutata dallo Stato, è riuscita a non ammainare la bandiera.
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